Articoli

La realtà virtuale per recruiting e training aziendale

,

Sostenere un colloquio di lavoro non è mai semplice, quale che sia la posizione per la quale si è candidati e allora la realtà virtuale può tornare utile in modi inaspettati. Benché abituati a parlare di sé, della propria formazione e del proprio bagaglio di esperienze professionali, fiduciosi e convincenti, è normale avvertire un po’ di tensione. Dipende certamente dal calibro dell’azienda o del datore di lavoro che dovrebbe assumere (se è dato conoscerne l’identità) ed entra in gioco il fatto stesso di trovarsi al centro dell’attenzione o sotto esame da parte di perfetti sconosciuti.

Questo discorso vale a maggiore ragione per chi, trovandosi senza impiego da diverso tempo, si sente oltremodo soggetto a un blocco psicologico. Oppure per coloro che si congedano dal servizio militare per tornare a immergersi in un contesto civile, dopo anni passati a indossare la divisa. Quello dell’esercito è appunto il contesto nel quale è stato sviluppato un progetto sperimentale che impiega la realtà virtuale con la finalità di risolvere i problemi di comunicazione e sciogliere i nodi mentali che affliggono i soldati quando tornano a vestire abiti civili. E faticano non poco a trovare un lavoro. Si tratta della medesima realtà virtuale che dalla maggior parte degli utenti è vista come un mezzo di intrattenimento, un gadget tecnologico per calarsi in simulazioni ludiche e rappresentazioni virtuali di mondi fantastici.
Tristan Carson, veterano del Corpo dei Marine statunitensi, è stato coinvolto nei test riguardanti un progetto pilota chiamato AIDE (acronimo di Artificial Intelligence Designed for Employment) escogitato da Onward to Opportunity, un programma di formazione professionale gratuita creato dall’Università di Syracuse per l’Institute for Veterans and Military Families (IVMF).

Il colloquio con l’Oculus

A veteran using VR

Adottando il dispositivo Oculus Rift, distribuito in 19 basi militari negli Stati Uniti, l’iniziativa mira ad agevolare la transizione dei soldati alla vita comune e prepararli ad affrontare colloqui di lavoro.
L’applicazione sviluppata per tale scopo implementa un sistema di “analisi del gergo” ed esamina i discorsi pronunciati dall’utilizzatore al fine di misurare il livello di nervosismo ed esitazione. Rileva per esempio il tasso percentuale di gergo e terminologia militare impiegato dai candidati, restituendo una trascrizione completa delle parole proferite e un feedback finale.

Hanno la necessità di sapere se si stanno esprimendo adeguatamente col responsabile delle risorse umane dell’azienda, per non dare luogo a fraintendimenti

Così spiega Bryan Radliff che, dopo 31 anni passati nell’esercito americano, ora dirige il percorso didattico CyberVets, pensato per allenare le competenze informatiche dei veterani.

Così i coordinatori del programma e gli specialisti del processo di transizione possono sedersi di fronte agli individui e discutere le loro esperienze, o lavorare sulla loro attitudine a sostenere un colloquio.

Il programma citato è solo uno in un panorama di iniziative volte a sfruttare la realtà virtuale nel campo del reclutamento o della formazione aziendale, dai colloqui di lavoro all’addestramento per lo svolgimento di processi meccanici complessi e persino attività per il benessere.

La realtà virtuale per selezione e formazione

Il mercato delle applicazioni per la realtà virtuale è ancora in larga parte dedicato alle esperienze videoludiche ma non mancano software per uso professionale. E si moltiplicano i programmi con finalità di selezione e formazione: una tendenza crescente che nel 2019 valeva una “misera” fetta (si fa per dire) di 3,1 miliardi di dollari (2,24 miliardi di sterline) e che si stima possa lievitare a 57,55 miliardi di dollari (40,19 miliardi di sterline) entro il 2027.

Tom Symonds, amministratore delegato della piattaforma di formazione online Immerse, afferma che l’uso della realtà virtuale porta innegabili vantaggi alle compagnie, come la possibilità di condurre sessioni didattiche o colloqui anche con molteplici interlocutori sparsi tutto intorno al globo, senza doversi scomodare a viaggiare o imporre al personale spostamenti fuori sede. Cosa che in effetti è già possibile ottenere con semplice ricorso ad applicazioni per organizzare teleconferenze, riunioni a distanza, webinar o appuntamenti virtuali come, tra le più note e popolari, Microsoft Teams, Google Meet, Zoom Meeting. La differenza, sempre secondo Tom Symonds, starebbe nel fatto che la realtà virtuale funziona meglio nel mantenere vivo l’interesse e un livello di attenzione elevato da parte di chi ne fruisce. Chiarisce Symonds:

In generale, le modalità più diffuse e accettate per sviluppare il talento all’interno di un’organizzazione è una sorta di formazione sulla falsa riga della didattica in classe, condita da qualche tipo di proiezione di slide in stile PowerPoint. E penso che stia emergendo la consapevolezza che questo vecchio modello possa essere arricchito per mezzo delle nuove tecnologie.

Così Brent Kedzierski, responsabile delle strategie di formazione e innovazione presso Shell:

Noi vediamo la realtà virtuale come un ulteriore metodo d’istruzione che fornisce ai team un luogo sicuro nel quale esercitare competenze tecniche come non potrebbero altrimenti fare in un ambiente fisico controllato e protetto. Quando i partecipanti non si trovano in una classe, possono continuare a fare pratica nelle simulazioni di realtà virtuale e rinforzare dunque le competenze intellettuali e le attitudini comportamentali.

Senza scordare che le simulazioni di esercizi di addestramento basati su scenari e situazioni sono progettati per essere ripetuti accrescendo il livello di difficoltà e complessità, senza richiedere alcuna supervisione da parte di un istruttore.

Engineer using VR for training

La spinta della pandemia

È altresì vero che l’impiego della realtà virtuale per le attività di selezione e formazione non è nuovo, giacché le prime applicazioni sono antecedenti al 2020, eppure, stando a quanto riportato da Kedzierski, le restrizioni agli spostamenti messe in atto dai governi per contrastare la diffusione della pandemia di coronavirus hanno messo in evidenza più che mai i vantaggi della realtà virtuale. Il che si è tradotto per aziende come la Shell nella capacità, nonostante i divieti imposti dalle misure vigenti, di svolgere le operazioni di accoglienza e inserimento rivolte ai neoassunti, comunque, ovunque e in qualunque istante.

Siamo in grado di consentire alle nuove leve di orientarsi dentro alle nostre strutture quando non hanno il lusso di visitare di persona la sala di controllo, la mensa o i dormitori.

Malgrado i benefici sin qui illustrati, non è tutto rose e fiori: la realtà virtuale è una tecnologia ancora limitata e limitante.

Il pubblico è pronto?

VirtualSpeech platform

Sophie Thompson, cofondatrice e direttrice operativa della piattaforma di apprendimento con realtà virtuale VirtualSpeech (che ha sede nel Regno Unito ed è specializzata nell’accrescimento di competenze relative alle tecniche di selezione, vendita e public speaking), sottolinea come, a fronte di una crescita del 300% nel 2019 e nel 2020, gli utenti non si siano ancora adeguati alla novità e non abbiano acquisito un’adeguata dimestichezza col mezzo.

C’è un abisso tra osservare il mondo digitale dallo schermo di un computer o di uno smartphone e infine divenire parte attiva in situazioni reali. La gente non è abituata a indossare un casco per la realtà virtuale e trovarsi immersa, come teletrasportata, in un altro luogo o esperienza; e alcuni sperimentano un senso di vulnerabilità. Ma le cose stanno già cambiando con l’evoluzione dei dispositivi che diventano sempre più sofisticati.

Kevin Cornish, amministratore delegato di Moth + Flame, una compagnia che ha collaborato con l’aeronautica statunitense per produrre soluzioni in realtà virtuale volte a contrastare fenomeni come la tendenza al suicidio o le violenze sessuali, afferma:

Una volta adottato questo metodo di apprendimento, per le persone è difficile tornare alla vecchia formazione di fronte allo schermo di un computer. È così immersivo e coinvolgente che le compagnie certamente lo inseriranno tra le soluzioni di formazione e addestramento.

È interessante notare che le maggiori difficoltà e reazioni di disagio provengano da individui attempati, mentre i giovani sono assai più propensi e a proprio agio nell’indossare un casco per la realtà virtuale.

Quando queste generazioni assumeranno ruoli dirigenziali e faranno parte dei vertici aziendali, il processo di adozioni di tale tecnologia subirà un’accelerazione. – prevede Cornish – Ma stiamo riscontrando un sacco di entusiasmo per questi prodotti anche da parte dei baby boomers e della generazione X.

Dal canto suo, Tom Symonds di Immerse ritiene che a spingere maggiormente verso la realtà virtuale sarà la volontà da parte delle aziende di implementare soluzioni tecnologiche a sostegno della salute e del benessere mentale dei propri dipendenti.
Immerse ha di fatto avviato una partnership con la app di meditazione Solas VR col fine di costruire una libreria di esperienze di realtà virtuale per conciliare la meditazione utili per aumentare il benessere mentale e la produttività del cervello. Il catalogo contempla già una selezione di video a 360° gradi che proiettano in scenari naturali idilliaci (catturati in Irlanda) nei quali rilassarsi, svolgere esercizi di respirazione e così via.

La tecnologia ha la capacità di trasportarti in un altro luogo, lontano dallo stress lavorativo quotidiano e collocarti in un ambiente che ti consente di ritrovare la calma. – chiosa Symonds – E questo è un utilizzo brillante dei dispositivi tecnologici.

Il social recruiting al tempo dell’intelligenza artificiale: intervista a Primo Bonacina

I robot conquisteranno il mondo! Da sempre gli “apocalittici” fanno più notizia e rumore degli “integrati”, per dirla con Umberto Eco, ma il fatto che una certa preoccupazione stia serpeggiando tra chi vede l’intelligenza artificiale (Artificial Intelligence o AI) come una minaccia al proprio lavoro o al futuro dei propri figli è sotto gli occhi di tutti. Peccato che i robot e l’intelligenza artificiale, invece, siano oggettivamente una risorsa: basti pensare che, come ha rilevato recentemente il manager di Microsoft Carlo Purassanta in un’intervista Rai, due bambini su tre, che sono oggi alle elementari, tra vent’anni faranno lavori che al momento non esistono. E che, molto probabilmente, avranno a che fare con tecnologia, robotica e intelligenza artificiale.

L’AI sta entrando prepotentemente nelle nostre vite: basti pensare ai chatbot su Facebook, a Siri, alla prevenzione delle frodi o agli articoli finanziari o sportivi già scritti da algoritmi; e l’AI ora si affaccia anche al mondo del lavoro. Anzi, al mondo della ricerca del lavoro. Per parlare di “AI for recruiting” ho contattato uno dei maggiori esperti di “social recruiting”, Primo Bonacina (nella foto).

L’intelligenza artificiale per il recruiting rappresenta la nuova frontiera dei software progettati per migliorare o automatizzare alcune delle fasi tipiche nei processi di assunzione. Quali sono le tendenze in atto?

L’interesse nei confronti di AI for recruiting è nato da tre principali tendenze. Innanzitutto la crescita economica in atto in molti mercati: ciò ha dato vita a un mercato professionale in cui la competizione per i migliori talenti è più accesa che mai. Tale competizione è destinata a crescere: secondo un sondaggio di LinkedIn il 56% dei talent acquisition leader crede che il loro volume di assunzioni crescerà nel 2017.

E il secondo trend?

Il bisogno di miglioramento tecnologico in area recruiting. Per quanto sia prevista una crescita delle assunzioni, il 66% dei talent acquisition leader afferma che il numero dei propri collaboratori per il recruiting resterà invariato o addirittura diminuirà.

In parole povere?

I recruiter, pressati da tempi assai stretti e aspettative elevate, avranno bisogno di strumenti di maggior efficacia per semplificare o automatizzare parte del proprio processo, soprattutto per quelle attività che implicano maggiore investimento e ripetitività in termini di tempo.

E i big data?

Sì, il terzo trend riguarda proprio l’analisi dei dati. Se da un lato la tecnologia diventa sempre più veloce ed efficiente in termini economici nella raccolta e analisi di un ampio numero di dati, dall’altro i talent acquisition leader sono sempre più portati a richiedere ai propri recruiter una prova della qualità delle metriche di assunzione, e questo sulla base di dati concreti, come per esempio le performance dei recenti nuovi assunti.

Come sempre accade quando c’è un’innovazione di tale portata, c’è anche un po’ di confusione, soprattutto per quanto riguarda i nuovi strumenti disponibili. Puoi illustrare i più interessanti?

Per aiutarvi a trovare il bandolo della matassa, vi propongo tre delle applicazioni più promettenti di “AI for recruiting”. La prima si chiama AI for candidate sourcing è una tecnologia che cerca online informazioni relative al profilo professionale delle persone (per esempio curriculum, portfolio o profili social media) per intercettare quei candidati passivi che possano rispecchiare i criteri di selezione.

In sostanza, qui parliamo di controllo della reputazione dei candidati. Hai nulla per la fase di selezione?

Sì, per le fasi di reclutamento che implicano grossi volumi, come quelli atti a coprire ruoli nel retail o customer service, la maggior parte del personale non ha il tempo necessario per passare al vaglio le migliaia di CV ricevuti per le posizioni aperte e serve quindi un aiuto. “AI for screening” è uno strumento ideato per automatizzare il processo di selezione dei CV dei candidati. Questa tipologia di screening software intelligente aggiunge funzionalità all’ATS (Application Tracking System) impiegando informazioni di post-assunzione, che riguardano per esempio prestazioni e turnover, in modo da creare una serie di “raccomandazioni” per l’assunzione di nuovi candidati.

In questo modo si può automatizzare un’attività ripetitiva e non fondamentale, consentendo ai recruiter di focalizzarsi su attività prioritarie. Che cosa mi dici invece del matching per trovare le corrispondenze migliori?

Trovare le corrispondenze migliori può divenire un compito ancora più arduo dei precedenti. Per questo segnalo “AI for candidate matching”. Gli algoritmi analizzano diverse fonti di dati – come per esempio tratti della personalità dei candidati, capacità e indicazioni legate a stipendio e package – per eseguire una valutazione automatica dei candidati in conformità con i criteri impostati.

Questo funziona anche su LinkedIn?

Certo, nella sostanza succede già: un’offerta di lavoro in LinkedIn mette in relazione le competenze della job description con quelle dei candidati sulla base di quanto indicato sui loro profili LinkedIn. I talent marketplace utilizzano algoritmi per trovare tali relazioni all’interno della loro comunità di candidati per le posizioni aperte.  Questi marketplace, in genere, soddisfano criteri specifici relativi alle competenze del candidato, come possono essere le capacità di sviluppo software o gli skill in area commerciale.

Insomma, il ruolo del recruiter sta cambiando: certamente molti automatismi possono essere delegati alle macchine, che fungono da suggeritori, ma la parte più difficile, e forse la più bella, quella del contatto e relazione e con i candidati, quella probabilmente non cambierà mai.