Nativi digitali, 10 cose che ogni genitore dovrebbe sapere

Per approfondire il tema dei nativi digitali, mentre stavo scrivendo la mia parte del Prontuario per genitori di nativi digitali, ho consultato diversi testi. Uno, in particolare, m’è parso illuminante: “Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media” di Giuseppe Riva, docente di psicologia e tecnologia della comunicazione nell’Università Cattolica di Milano.


Grazie al testo ho imparato dieci cose sui nativi digitali, te le riporto tutte qui.

  1. Partiamo dall’origine dell’espressione “nativo digitale”. Si deve Marc Prensky, risale addirittura al 2001. Il termine fu utilizzato la prima volta nell’articolo “Digital Natives, Digital Immigrants”, dove Prensky identificava coloro che fin dalla nascita vivono a contatto con i mezzi di comunicazione digitali e le diverse tecnologie emerse negli ultimi anni, come social network, blog, tablet, smartphone e computer. Prensky attribuisce l’appellativo “nativi digitali” ai ragazzi nati dopo il 1985, gli altri sono “immigranti digitali”.
  2. Detto chi sono, vediamo quali sono le caratteristiche dei “nativi digitali”. Nativo digitale non è qualcuno che è in grado fin dalla nascita di usare le nuove tecnologie, ma chi le sa usare intuitivamente, senza sforzo. Quindi non si tratta, secondo Riva, di una questione generazionale, bensì di capacità: è possibile essere nativi digitali anche a 50 anni, come si può non esserlo a 20! Lo si diventa dedicando alle tecnologie una significativa quantità di tempo. Quanto? Secondo Palfrey e Gasser entro i 15 anni i nostri figli dedicheranno alle tecnologie tra le 1.200 le 1.500 ore all’anno; 5 anni più tardi, 20 anni, avranno accumulato 10.000 ore: lo stesso tempo che serve a un musicista per diventare un professionista.
  3. I nuovi media influiscono sullo sviluppo dei nativi digitali? Gli esperti non sono concordi. Secondo Paolo Ferri – autore della prefazione del mio Prontuario – bambini e studenti di oggi apprendono e gestiscono informazioni e comunicazione in modo sostanzialmente diverso da noi. A detta di Pier Cesare Rivoltella, invece, non ci sono evidenze scientifiche in tal senso. La posizione di Riva è intermedia: basta guardarsi attorno per accorgersi che non tutti gli adolescenti e i giovani adulti sono in grado di usare le tecnologie in maniera intuitiva. Il costo della tecnologia e la disponibilità di una connessione veloce a Internet sono ancora barriere insuperabili per molti potenziali nativi digitali. Allo stesso tempo, nel momento in cui un adolescente, attraverso l’uso massiccio dei media digitali, diventa capace di usare la tecnologia intuitivamente, i suoi processi cognitivi e sociali cambiano.
  4. I nuovi media modificano la capacità di riconoscere e sperimentare le emozioni. Del resto l’interazione mediata sostituisce la fisicità del corpo con quella del medium, impedendo di attivare i meccanismi di simulazione corporea che ci permettono di comprendere l’altro. La mancanza di fisicità dell’altro priva il soggetto di un importante punto di riferimento nel processo di apprendimento e comprensione delle emozioni proprie e altrui, favorendo l’analfabetismo emotivo. Proprio l’analfabetismo emotivo è alla base di alcuni problemi che caratterizzano le nuove generazioni, tra gli altri il cyberbullismo.
  5. I nativi digitali sono detti anche “generazione touch”. Tutto dipende dalle interfacce, e finora ne abbiamo viste sostanzialmente quattro: testuale (mail e SMS), Web (browser), Web 2.0 (blog e social con la comparsa degli “spattattori”) e infine l’attuale, touch (smartphone e app).
  6. Con la generazione touch nasce il baby nativo digitale: si può accedere ai nuovi media senza avere competenze linguistiche. Anche bambini molto piccoli, con poco più di un anno di vita, sono in grado di interagire efficacemente con dispositivi touch: il 39% dei bimbi dai 2 ai 4 anni utilizza abitualmente tablet e smartphone per giocare o vedere i video (si parte generalmente dai filmati su Youtube). Al punto che togliere il dispositivo touch al bambino può generare pianti e discussioni. Per evitare problemi, è necessario fissare subito delle regole per l’utilizzo e, all’inizio, sperimentare l’uso condiviso di questi strumenti.
  7. Occorre, tra le regole, stabilire dei limiti di tempo per l’uso dei dispositivi. Impostare un limite temporale consente al bambino di visualizzare in anticipo il momento del distacco, riducendo l’impatto emotivo. I bambini piccoli però non hanno il senso del tempo: all’inizio, quindi, è utile usare una sveglia che indichi chiaramente, e indipendentemente dall’intervento del genitore, la fine.
    Quanto tempo? Sotto i due anni le tecnologie touch possono contribuire allo sviluppo cognitivo se usate con moderazione: massimo 15 minuti. Il tempo può aumentare con il crescere dell’età: mezz’ora fino a quattro anni, 45 minuti fino ai sei anni. In ogni caso, non è consigliato il possesso di una console o un tablet personale prima dei sei anni. In ogni caso è sempre necessario un controllo molto rigoroso su orari e contenuti.
  8. A proposito di affiancamento e uso condiviso, gli esperti parlano di scaffolding. In psicologia e pedagogia questo termine indica l’aiuto dato da una persona a un’altra per svolgere un compito. Il termine deriva dalla parola inglese scaffold: impalcatura.
    L’affiancamento ha senso anche perché molte app hanno obiettivi da raggiungere che possono non essere immediatamente evidenti a un bimbo di due o tre anni. La presenza del genitore garantisce la possibilità di comprendere che cosa va fatto, riducendo l’eventuale frustrazione di un bambino alle prese con interazioni troppo complesse o poco chiare.
  9. L’identità di ciascuno è il risultato dell’interazione tra identità personale e identità sociale. Sempre più quest’ultima viene definita online. I nativi digitali raccontano le proprie esperienze e sentimenti non solo nelle pagine di un diario privato, ma anche in Rete. Se all’inizio le narrazioni avevano un carattere descrittivo, progressivamente gli utenti le hanno usate creativamente per definire la propria identità sociale. Questo comporta tre paradossi.
    Primo paradosso: se i nativi digitali possono usare efficacemente i media digitali per modificare la propria identità sociale, è anche vero che l’intervento esterno può modificare più facilmente il modo in cui gli altri membri della rete ne percepiscono l’identità. In pratica, nonostante tutti i nostri sforzi, non sappiamo se qualche amico, consapevolmente o meno, può modificare la nostra immagine. Per esempio questo può avvenire in maniera diretta, con un commento sulla bacheca, o in modo indiretto, con i tag.
    Secondo paradosso: se i nativi digitali possono scegliere come e quali caratteristiche sottolineare della propria identità sociale attraverso i media, è anche vero che, seguendo le tracce lasciate della diverse identità digitali (per esempio su diversi canali social), è più facile per gli altri ricostruire l’identità reale.
    Terzo paradosso: se i social media, non distinguendo tra legami forti e deboli, consentono ai nativi digitali di gestire con sforzo limitato i legami deboli, facilitando l’allargamento della rete sociale, allo stesso tempo la mancanza di differenza può farli comportare con i legami deboli allo stesso modo che con i legami forti. Il sociologo Macpherson, al termine di una ricerca negli Usa, ha rilevato che, nonostante il numero di amici dei social sia spesso misurato in centinaia, i “veri” amici siano solo 2,08 (nel 1985 erano 2,94). Se consideriamo amici veri quelli che hanno una nostra foto nella loro bacheca, il conto sale a 6,6.
  10. I nativi digitali non considerano la privacy un valore. La maggior parte dei nativi digitali, ben il 57%, considera la privacy non un diritto ma una minaccia alla libera conoscenza e sono disposti a divulgare dati personali senza problemi.

Il libro di Riva è stato protagonista della prima puntata del mio podcast “Genitorialità e tecnologia”. Ascolta “Episodio zero: chi sono i nativi digitali? (26 aprile 2018)” su Spreaker oppure fai clic su questo video YouTube:

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