Articoli

Social recruiter: 10 cose che devi sapere se vuoi fare questo mestiere

Quando ho intervistato il social recruiter Osvaldo Danzi (leggi qui), tra una risposta e l’altra ha citato il libro “Social recruiter” di Martini e Zanella, edito da FrancoAngeli. Allora l’ho letto.

Un buon testo, completo, che fa il punto della situazione su una nuova professione – quella del selezionatore votato al Web e ai social – in forte ascesa. Ho capito che se vuoi fare questo nuovo mestiere, devi sapere le seguenti dieci cose.

  1. Se tutto il mondo va sui social, anche il recruiter non può fare altrimenti. Una delle autrici lavora per Adecco e giustamente cita uno dei maggiori studi su Internet e ricerca del lavoro: vale a dire Work Trends Study. Tra le altre cose si scopre che i lavoratori usano i social anche per tenersi in contatto con i recruiter.
  2. Nell’era di TripAdvidsor, dove ci fidiamo più delle recensioni di altri utenti come noi e non della comunicazione istituzionale, anche le aziende sono state travolte dalla cosiddetta “peer review”. È il caso, per esempio, di Glassdoor. Ma guarda anche l’italiano Sopo. Per questo i responsabili del personale devono puntare sulla employee advocacy: devono coinvolgere i dipendenti in attività che possano farli sentire parte di una community, addirittura di una famiglia.
  3. I social non vengono utilizzati solo per pubblicare offerte, come fossero job board. Servono soprattutto per controllare le informazioni sui candidati, confrontandole con quelle riportate sul CV, nonché per attirarli e infine per contattarli direttamente. I social permettono anche di scoprire il lato umano dei candidati, le competenze trasversali (come quelle comunicative), la loro rete, i loro veri interessi.
  4. I social non servono solo per intercettare i candidati attivi, ma soprattutto per scovare quelli passivi: quelli che non stanno cercando un lavoro.
  5. Non solo LinkedIn, moltissimi recruiter usano anche gli altri social. Facebook prima di tutti, ma anche Twitter, Instagram e Pinterest, oppure YouTube. Microsoft, per esempio, usa l’account Instagram Microsoftlife per fare employer branding.
  6. Per employer branding si intende “la reputazione di un’organizzazione nel suo ruolo di potenziale datore di lavoro”.
  7. Pure i sistemi di messaggistica fanno la loro parte. Cisco, in questo post sul blog ufficiale, spiega come usa Snapchat per raccontare l’azienda e attrarre candidati (soprattutto giovani). WhatsApp può essere un modo efficace per tenere contatti informali con i candidati.
  8. I recruiter devono usare la Rete, e i social in particolare, anche per fare personal branding. Posizionarsi, condividere contenuti di qualità, attirare “personalmente” i candidati.
  9. I recruiter devono lavorare anche moltissimo sul networking. Non quello dei candidati, il proprio.
  10. Se il social recruiter è colui che riceve, legge e cataloga curriculum e domande inviate a seguito di posizioni lavorative aperte, esistono altre figure della filiera della ricerca dei lavoratori. Per esempio c’è il sourcer, che svolge la ricerca “creativa” di candidati qualificati per posizioni aperte o programmate, spesso andando a caccia di candidati passivi. Poi c’è l’HR manager, funzione che si occupa per prima cosa di diffondere la cultura aziendale, le competenze e i modelli organizzativi. Infine esiste anche il consulente per la ricollocazione, un professionista ingaggiato dalle aziende quando, per ragioni organizzative, si devono ridurre gli organici.

Se vuoi leggere altre recensioni di testi a tema tecnologico, fai clic qui.

Il social media recruiting non è un costo, ma un investimento: intervista a Osvaldo Danzi

Per parlare di risorse umane e social media ho contattato uno dei centravanti di sfondamento di LinkedIn: Osvaldo Danzi. Recruiter, appassionato di “umane risorse” e tecnologie, dagli anni Novanta seleziona profili in vari settori. Oggi collabora con SCR Consulenza, seguendo le selezioni di middle e top management. È il fondatore della Business Community FiordiRisorse, nominata da LinkedIn come caso di successo italiano. È ideatore dell’unico master italiano per manager e imprenditori definito etico, low cost, itinerante che in sei anni ha coinvolto oltre 100 aziende italiane. E’ editore di informazionesenzafiltro.it e collabora con Wired Italia.

Osvaldo, come vedi il rapporto tra aziende e social recruiting?

Per inquadrare il fenomeno un documento molto utile è quello elaborato da Adecco su Word Trends e social recruiting.

Di solito, online, non sei tanto tenero con le agenzie di selezione.

Non sono tenero con gli operatori HR che si improvvisano tali. Adecco ha dimostrato una grande capacità di anticipazione dei tempi al tema della trasformazione digitale. Quei report, frutto di indagini capillari sul territorio e non di studi su gruppi ridicoli da cento persone, sono materiale prezioso per chi vuole capire il mercato del lavoro oggi.

Ne emerge che il social recruiting è una realtà o solo una buzz word, un’espressione di moda, tutto fumo?

A mio parere ormai è una realtà. Per approfondire il tema suggerisco di leggere il libro “Social recruiter” di Anna Martini e Silvia Zanella.

Ma le aziende lo sanno?

Eh, il problema riguarda la cultura aziendale, che però sta cambiando. Fino a qualche anno fa, anche solo un triennio, si vedevano aziende che alzavano il firewall contro i social, considerandoli una perdita di tempo ma soprattutto un grande pericolo alla sicurezza aziendale. In realtà il vero pericolo rappresentava l’incapacità di saperli gestire ed utilizzare. In molti casi, le aziende non permettevano l’uso di LinkedIn nemmeno all’interno dei dipartimenti HR. Un’assurdità.

Ora le cose sono cambiate?

Sì, anche perché i dipendenti, se non accedono ai profili con gli strumenti di lavoro, hanno i propri. Ma soprattutto è evidente che strumenti come LinkedIn, ma attenzione, anche Facebook, rappresentano oggi uno strumento fondamentale per individuare candidati interessanti e soprattutto per confermare o meno alcuni aspetti dei loro cv.

Si parla di BYOD, bring your own device: i lavoratori hanno i propri telefoni e tablet…

Esatto. Quindi c’è stata una repentina inversione di tendenza. Ora è l’azienda, almeno quella che ha capito il gioco, che chiede ai dipendenti di diventare ambasciatori del brand. Peccato che, chi non è preparato, chi non fa un serio lavoro di engagement sui propri collaboratori e di punto in bianco richiede fedeltà e senso di appartenenza, faccia dei danni enormi.

Ti riferisci al caso del video della responsabile della filiale della banca Intesa San Paolo in cui la direttrice presenta il suo staff e con loro canta la canzoncina: “Io ci sto, ci metto la faccia, ci metto la testa, ci metto il mio cuore”, immagino.

Anche. Quel caso è emblematico. L’azienda chiede ai dipendenti di esporsi, ma senza una dovuta preparazione, senza un minimo di formazione in comunicazione digitale è diventata un gioco al massacro dove la maggior parte del pubblico non ha capito che lì il vero tema non è stato il cyberbullismo nei confronti di quella sprovveduta direttrice di filiale, ma la mancanza di una vera e propria cultura aziendale sui temi della leadership e del team building prima, della comunicazione digitale, poi.

Che cosa dovrebbero fare, invece, le aziende?

Aprirsi a questi strumenti con la dovuta preparazione, per capire che il social media marketing vuol dire fare marketing sui social media, non usare i social media per fare marketing: è diverso. Le aziende devono capire che i dipendenti portano in giro il loro marchio e se lo fanno male è un danno. Altro aspetto da valutare seriamente è affidare la formazione su questi temi a persone serie e qualificate, ma soprattutto che conoscano limiti e opportunità delle aziende. Invece sempre più spesso vediamo entrare in azienda “socialmediacosi” reclutati a seconda del numero dei like acquisiti su facebook.

Concordo. Ma a volte trovo aziende volenterose ma dipendenti che rivendicano la titolarità di un profilo LinkedIn personale.

Vero, il profilo è personale. Ma se hai notato, la seconda informazione che appare dopo il nome e il cognome dell’utente, è l’azienda. Quando comunichi su LinkedIn il tuo pubblico valuta anche la posizione che ricopri e il posto in cui lavori.

Altre aziende invece hanno paura di esporre il proprio capitale umano…

Questo è assurdo. Un’azienda non può chiedere ai propri dipendenti di non essere su LinkedIn. E’ come chiedere un patto di non concorrenza: allora pagalo! Così come è assurdo che ancora qualcuno dica: “non voglio far vedere in azienda che sto contattando i recruiter”. Mi chiedo in che modo si possa stabilire di “stare contattando qualcuno” anziché “essere contattati da qualcuno”.  In fin dei conti, essere un profilo molto ricercato dovrebbe “alzare la quotazione” di un candidato e spingere l’azienda a tenerselo bello stretto.

Chiaro. Ma come si passa dal social media marketing al social recruiting?

Intanto cerchiamo di capire cosa si intende per social recruiting. LinkedIn mette a disposizione un “cruscotto” per aziende e recruiter che permette loro di comunicare attraverso una Company Page, offrire opportunità lavorative, ricercare profili. Le aziende che affidano ai profili privati dei propri dipendenti (siano stagisti che selezionatori) non stanno facendo social recruiting. Stanno utilizzando i profili personali di alcuni loro collaboratori per cercarne altri. Quando quei collaboratori lasceranno l’azienda, porteranno con sé tutto il capitale di selezione. Ma soprattutto, social recruiting non è solo pubblicare offerte di lavoro, ma è anche e soprattutto employer branding digitale: storie, foto, video, comunicazione per rendere quell’azienda un posto fantastico di attrazione naturale per i candidati.

Qual è l’aspetto di LinkedIn per il recruiting che più ti ha colpito?

È una questione di approccio. A pubblicare le offerte, a metterci la faccia, non sono più le aziende, ma le persone. Cade la spersonalizzazione dei vecchi meccanismi di recruiting, con comunicazioni gestite da caselle fantasma “info@”. Quando pubblichi un’inserzione attraverso LinkedIn compare il nome della persona che se ne sta occupando. Adesso anche i candidati possono scegliere l’azienda in cui investire. E il recruiter, da parte sua, verifica le informazioni, controlla le referenze, valuta il network e soprattutto i contenuti pubblicati. Un mestiere che non si può più affidare allo stagista o ai figli del titolare che hanno fatto psicologia e di conseguenza vengono parcheggiati nelle risorse umane. Il recruiting non è solo un costo: è un investimento.

Vuol dire che basta LinkedIn, si può fare a meno del resto?

No, gli altri strumenti sono ancora validi. Un’inserzione sul sito, nella pagina Lavora con noi, può ancora essere utile. A patto di saperla fare…

Che cosa intendi?

Spesso gli annunci sono la conseguenza di un modo di comunicare vecchio. Così come nella comunicazione aziendale non puoi permetterti di prendere comunicati stampa, publiredazionali e veline e metterle sui social, ora serve una comunicazione vicina alle persone, anche gli annunci di lavoro hanno una comunicazione propria.

Puoi fare degli esempi?

Consiglio di vedere il video di Heineken, The Candidate. Mostra come si possa fare recruiting in modo diverso, portando letteralmente le persone dentro all’azienda. Si vede anche come l’azienda punti forte sulle soft skill.

 

E in Italia?

20 anni fa la società Daniela Rossi e Associati creava delle job description che erano vere perle di storytelling (si direbbe oggi), sono rimasti insuperati ancora oggi.

Ma social e storytelling possono battere la tanto citata crisi?

Basta con questa storia della crisi! Chi doveva tagliare ha tagliato, non c’è più spazio per quel tipo di approccio basato solo sulle relazioni sindacali; ora le risorse umane sono tutt’altro: organizzazione e sviluppo delle competenze, formazione, relazioni dirette e trasparenti. È cambiato il mondo. Un tempo parlare con le aziende era difficilissimo. Qualche tempo fa mi è capitato di cercare Grom per il mio master. Dopo mille filtri di segretarie e mail, l’ho beccato su Facebook, mi ha risposto, ci siamo parlati.

Ci puoi lasciare con un suggerimento per le aziende?

Semplice: se non evolvi, muori. Investite sui social ma affidatevi a degli specialisti.