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[Articolo per Digital4] Personal branding: come promuoversi con lo schema “P.E.S.O.”

Personal branding: come promuoversi con lo schema “P.E.S.O.”. L’esempio di “C’era una volta a Hollywood”

I canali che usa un brand per comunicare e promuoversi rientrano in quattro categorie: paid, earned, shared e owned. Prendendo spunto dal noto film di Tarantino, ecco come usare una strategia di marketing per promuovere se stessi

(articolo pubblicato su Digital4 il 15 ottobre 2019)

Qualche giorno fa è uscito anche in Italia l’ultimo film di Quentin Tarantino: “C’era una volta a Hollywood”. Come lo stanno promuovendo? I canali sono sostanzialmente quattro e ricalcano uno schema che, nel marketing, è ben noto: si chiama P.E.S.O. anche se non ha nulla a che fare con la bilancia. Ecco come usare lo stesso schema per il proprio personal branding.

Che cos’è lo schema P.E.S.O.?

I canali che usa un brand per comunicare e promuoversi rientrano in queste quattro categorie:

  • Paid
  • Earned
  • Shared
  • Owned

Vado con ordine.

I canali paid, a pagamento, sono quelli dove occorre investire un budget per arrivare al proprio pubblico. Possono essere digitali o tradizionali: dalle campagne di sponsorizzazione su Facebook e LinkedIn alla pubblicità radiofonica. Nel caso del film di Tarantino l’esempio è uno spot radiofonico o questo cartellone stradale.

I canali earned, contrariamente a quanto avviene con quelli paid, sono gratuiti perché la visibilità si acquisisce grazie alle pubbliche relazioni. Per esempio un articolo o un’intervista, ovviamente non a pagamento (i publiredazionali rientrerebbero nella categoria precedente), come nel caso di questo pezzo di Style del Corriere.

Personal Branding

I canali shared sono i social, dove i fan aiutano la comunicazione del brand condividendone i contenuti. Per esempio, sempre nel caso del film, il trailer su Facebook circola spontaneamente tra gli appassionati e non.

Infine i canali owned, per me i più importanti, sono quelli proprietari. Per esempio il sito Web (meglio se con tanto di blog incluso). Chiaramente la Warner ha aperto uno spazio online, sul suo sito, per il film.

Va detto che c’è chi, come Forrester nel 2009, limitava le categorie a tre: paid, earned e owned, perché era troppo presto per puntare forte sui social. Ma la sostanza cambia poco. Piuttosto vale la pena fare un’altra valutazione: Pier Luca Santoro su Datamediahub, in particolare nell’articolo “L’evoluzione dei Media: da Paid, Owned & Earned a Rented, Endorsed & Boosted”, spiega: «I media sono sempre più rented, endorsed e boosted. I rented media sono in media nei quali siamo, appunto, ‘in affitto’, come, in caso di dubbi, conferma il recente cambio di algoritmo di Facebook e le relative implicazioni per i brand. I boosted media sono quelli ‘pompati’, spinti oltre che attraverso i paid media tradizionali grazie a social e native advertising. Infine, gli endorsed media sono quelli dove, sia a pagamento che in maniera invece gratuita, i brand, le aziende vengono citate positivamente».

Come usare lo schema P.E.S.O. per il personal branding?

Da tempo sto organizzando la mia comunicazione personale, intesa quella professionale, con questo schema. Al centro della mia strategia, coerente con lo schema “hub & spoke” di Hubspot, ho messo il mio sito Web Gianluigibonanomi.com. Anzi, il mio logo è proprio l’indirizzo del sito.

Unitamente al canale proprietario, uso molto i social, in particolare LinkedIn e Facebook (in entrambi i casi con profilo personale e pagina aziendale), anche se non disdegno InstagramYouTube e – con sempre minor convinzione – Twitter. Tutte le volte che un corsista mi lascia un recensione positiva o condivide un contenuto, mi sta dando visibilità… “shared”. Invece quando, per esempio a seguito dell’uscita di un libro o di un evento pubblico, un giornale o una radio o un canale televisivo mi intervistano, si parla di visibilità guyadagnata, “earned”, non a pagamento. La carta di credito invece la uso, di tanto in tanto, per fare campagne per spingere i contenuti, per esempio il mio videocorso gratuito sul personal branding.
Qui sto parlando solo di canali e visibilità, se vuoi di touchpoint con il pubblico: chiaramente al centro di tutto ci stanno i contenuti, senza i quali non c’è nulla da sponsorizzare, promuovere e condividere.

Come trovare i veri perché dei clienti? Il mio articolo per Digital4

Questo articolo è stato pubblicato su Digital4.

Quali sono i motivi (reali) che spingono i clienti a comprare? Il metodo ideato da Sakichi Toyoda per la Toyota Motor Corporation elenca i 5 perché che spiegano come i bisogni più intimi siano legati alle nostre scelte.

Nell’ultimo libro di Seth Godin, ricco di suggerimenti (che ho raccolto nell’articolo 7 citazioni dal libro di Seth Godin “Questo è il marketing”), ho trovato in particolare uno spunto interessante su quello che motiva davvero un acquirente. Prima di vederlo, e di illustrare un metodo per trovare le cause profonde, serve un passo indietro.

La punta del trapano di Levitt

Theodore Levittprofessore di marketing dell’Harvard Business School, ha affermato: «La gente non vuole comprare un trapano con una punta da 6 mm. Vuole un foro da 6 mm». In pratica quello che si evince è che la punta da trapano è solo una funzionalità, un mezzo per raggiungere un fine. Quale? Ciò che le persone vogliono veramente, sosteneva Levitt, è il foro che realizzeranno con la punta.

Nessuno vuole davvero un foro, né lo scaffale

Secondo Seth Godin, però, la visione di Levitt è limitata, anzi sbagliata. «Nessuno vuole un foro», scrive: al di là della frase che potrebbe attirare facili e puerili battute, in effetti il trapano serve per fare un foro per montare a parete uno scaffale.
Ma Seth Godin non si ferma qui: «Quello che vogliono è la sensazione che provano nel momento in cui vedono come tutto è ordinato quando ripongono le loro cose sullo scaffale agganciato al muro, ora che c’è un foro da 6 millimetri». Spingendosi oltre, ancora più in profondità, forse i clienti non vogliono solo quella sensazione di ordine, e quindi di sicurezza, ma qualcosa che riguarda i loro più intimi desideri: vogliono anche la soddisfazione di sapere che l’hanno fatto da soli. E la reputazione che ne consegue, con coniugi e amici.

Che cosa cercano davvero i clienti?

«Le persone non vogliono comprare un trapano con una punta da 6 millimetri. Vogliono sentirsi sicure e rispettate»: questa la conclusione di Godin.
Tutto questo mi ha fatto venire in mente il metodo ideato da Sakichi Toyoda per la Toyota Motor Corporation: i cinque perché (5 Whys) (io avevo trattato in un articolo come trovare il proprio perchè: “Riepilogo di LinkedIn: come trovare il proprio perché”). Questo metodo può essere applicato per scoprire i bisogni più intimi delle persone, per esempio perché si usano le email:

1° perché: per rimanere in contatto con gli altri.
2° perché: per condividere e ricevere informazioni rapidamente.
3° perché: per sapere che cosa succede nella vita dei colleghi, amici e familiari.
4° perché: per sapere se qualcuno ha bisogno di te.
5° perché: perché hai paura di essere tagliato fuori.

Lo storytelling nel Riepilogo di LinkedIn: 5 tecniche da usare

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Questo articoli sull’uso dell’arte dello storytelling su LinkedIn, in particolare nel riepilogo, è stato pubblicato su Digital4 il 1 aprile 2019.

Digital storytelling e Personal Branding: 5 tecniche da usare nel Riepilogo LinkedIn

Come si possono usare al meglio i duemila caratteri che abbiamo a disposizione nel riepilogo LinkedIn? Prima di ogni cosa bisogna ricordarsi di partire bene e puntare sull’incipit. Obiettivo: catturare l’attenzione

LinkedIn è uno dei migliori strumenti per fare personal branding è certamente LinkedIn. Nel proprio profilo si inseriscono molte informazioni riguardo carriera, skill, corsi e progetti. Ma si può anche raccontare, usando tecniche di storytelling, la propria storia (mi raccomando: in prima persona!). Questa va inserita nella sezione detta Riepilogo, o Summary. Molti trascurano quella sezione, invece è possibile usare proficuamente quei 2.000 caratteri. Per esempio usando le cinque tecniche di storytelling che troverai in questo articolo.

1. Puntare sull’incipit

Dei duemila caratteri a disposizione, solo i primi sono mostrati al visitatore del tuo profilo. Se vuole leggere il resto, deve fare clic su “Visualizza altro”.

Per questo occorre partire con un incipit che catturi l’attenzione. Non certo il banale “C’era una volta”… Come scrive Massimo Petrucci nel suo manuale di scrittura creativa: “L’incipit è il primo battito del nostro racconto e deve immediatamente sedurre il lettore”.
Potresti usare una battuta, a mo’ di ice-breaker, oppure una frase a effetto, come William Arruda, esperto di personal branding e… impenditore:

Pochissimi usano la tecnica di storytelling definita “in media res”. Questa espressione viene da Orazio: si riferiva allo stile epico di Omero; l’autore dell’Iliade e dell’Odissea faceva cominciare il racconto ad avvenimenti già in corso, non partiva dall’inizio. Idea per te: un virgolettato di quell’oratore che ti ha cambiato la vita e la carriera. Si potrebbe anche partire dalla fine e giocarsi il Riepilogo LinkedIn come un insieme di flashback.

2. Gli archetipi

Cristofer Vogler, pescando da Campbell a Jung, ci spiega che “tutti i racconti sono costituiti da alcuni elementi strutturali comuni, che si trovano universalmente nel mito, nelle fiabe, nei sogni e nei film. Essi sono conosciuti come il viaggio dell’eroe”. Senza perdersi in discorsi complessi sull’inconscio collettivo, basti sapere quello che sottolinea Luisa Carrada“I temi del ritorno a casa, del superamento degli ostacoli, della perdita e del ritrovamento, sono comuni anche al giornalismo e in qualche misura anche alla scrittura di impresa. Acquisire un importante contratto non è molto diverso dall’uscire vivi dalla fossa dei leoni e anche un gelido case history può diventare una bella storia a lieto fine”.
Come usare tutto questo in LinkedIn? Raccontami, cavaliere, quale drago hai sconfitto! Eventualmente parlami di mentori, nemici, ricompense e morali. Ecco un esempio di come si può usare questo schema: “La crisi del settore mi ha messo di fronte a un bivio: potevo rimanere aggrappato al mio vecchio mestiere, arrabattandomi e venendo a compromessi, oppure potevo ricominciare tutto daccapo. A me piacciono le sfide.” In pratica: Blockbuster da una parte e Netflix dall’altra. Come hai superato la crisi del 2008? Come stai gestendo la Digital Transformation? Quali paure avevi quando hai mollato il posto fisso?

3. Show, don’t tell

Stephen King, parlando di Annie Wilkes (l’infermiera che tiene prigioniero Paul Sheldon in Misery), scrive nella sua autobiografia On Writing: “Ho cercato di non scrivere mai frasi esplicite come: «Quel giorno Annie era depressa, forse con inclinazioni suicide», oppure: «Quel giorno Annie sembrava particolarmente felice». Se sono io a dovervelo dire, ho perso. Se viceversa vi presento una donna taciturna e dai capelli sporchi che fagocita dolci con accanimento, spingendovi a concludere che Annie è nella fase depressiva di un ciclo maniaco-depressivo, vinco”.

Non dire che sei bravo, simpatico, carismatico. Fallo dire agli altri. Tu limitati a dimostrarlo, per esempio dando i numeri (in senso positivo). Non “Sono un ottimo commerciale” ma “Nel 2018 ho fatto crescere il fatturato della mia azienda del 20%”. I numeri sono, spesso, l’unica cosa che conta. Guarda come ha impostato il suo riepilogo LinkedIn Cristian Zaccardo, ex campione del mondo con l’Italia nel 2006:

4. I cliffhanger

Un buon racconto prevede anche dei colpi di scena. “Il cliffhanger è un espediente narrativo usato in letteratura, nel cinema, nelle serie televisive o nelle opere videoludiche, in cui la narrazione si conclude con una interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena o di un altro momento culminante caratterizzato da una forte suspense” (Wikipedia). Io l’ho usato così sul mio profilo:

5. Il racconto ciclico

La narrazione circolare prevede che la situazione di partenza si ripresenti, un po’ modificata ma sostanzialmente simile, alla fine del racconto. Nel film Sentieri Selvaggi apertura e finale sono praticamente la stessa scena:

Come utilizzare questa tecnica in LinkedIn? Potresti iniziare raccontando che, durante un esame universitario, il tuo professore ti disse, magari con un po’ di strafottenza, che non saresti mai diventato un dirigente di alto livello, uno scrittore, un primario o altro. Invece ce l’hai fatta. Alla fine del racconto puoi prenderti una rivincita, con stile. Non ricorda Davide Vs. Golia?

Il Riepilogo LinkedIn è la parte più difficile da gestire, su LinkedIn. Per tutto il resto puoi seguire il mio videocorso gratuito per sistemare tutto il profilo LinkedIn, 10 pillole da ricevere in posta elettronica.

Personal branding: 4 errori da evitare – Il mio articolo per Digital4

Lo scorso 11 marzo 2019 Digital4 ha pubblicato il mio articolo dal titolo “Personal Branding: quattro errori da evitare“:

Il Personal Branding è oggi uno strumento fondamentale per ogni professionista in cerca di lavoro o desideroso di accrescere la sua rete di conoscenze. Ecco cosa non fare quando si vuole promuovere se stessi nell’era della comunicazione digitale (a tutti i costi), fare Personal Branding è ormai indispensabile per ‘farsi una reputazione’. Accade però che sempre più manager e professionisti si stanno buttando sguaiatamente online, con la foga di occupare spazi che, spesso, poi restano vuoti. O peggio.

Ecco perché, quando si fa Personal Branding, è necessario impostare un’adeguata strategia per mettere in luce i punti di forza, quello che rende unici e comunicare efficacemente quello che si sa fare e come lo si sa fare.

Ma ancora più importante è non fare dei passi falsi. In questo articolo ho raccolto un poker di errori da non fare quando si vuole puntare sul Personal Branding.

1. Fraintendere il Personal Branding

Quando si parla di Personal Branding si fa sovente riferimento a questa celeberrima frase di Jeff Bezos“Il personal brand è quello che le persone rimaste dicono di te quando esci da una stanza”.

Questo esclude quindi l’autoincensamento; nel mondo della comunicazione digitale si può fare propria la regola principale dello storytelling: “show, don’t tell” (vedi “On writing”, la biografia-manuale di Stephen King). Dimostra di essere bravo, non dirlo tu!
Sai quanti “leader di settore” ci sono in Italia? 315.000, secondo Mr. Google.

Post scriptum: vietato esagerare, basta un semplice controllo incrociato per vedere che quei due anni di studio dell’inglese in Inghilterra erano in realtà due settimane a lavare i piatti. Memento: ricorda come è finito chi millantava lauree e master…

2. Non monitorare la propria reputazione online

Il brutto del Web è che tutto resta e tutto è ricercabile: schegge impazzite di conversazioni sbagliate possono perseguitarti per sempre, e raramente il diritto all’oblio garantito da Google è la soluzione. Ma è anche il bello del Web: puoi intercettare qualsiasi comunicazione o conversazione che ti riguardi. Possibilmente in tempo reale. È fondamentale che tu abbia coscienza di quel che si dice di te. A maggior ragione se, per ragioni lavorative, ti esponi: pubblicazioni, eventi pubblici, speech, ruoli di rilievo, news di settore e così via.

Come monitorare? Esistono diversi strumenti per farlo, dai più semplici (fare ego-surfing: cercarsi su Google, o usare degli alert) ai più complessi, come per esempio piattaforme in grado di valutare anche il “sentiment” di quel che si dice, non solo “se” ma “come” si parla di te.

3. Non posizionarsi correttamente

Il panorama business del nostro Paese non solo è saturo di leader di settore, ma è anche costellato di dirigenti e professionisti tutti uguali: un esercito di cloni. Usano tutti gli stessi strumenti, la stessa comunicazione, le stesse frasi fatte (28.500 “persona dinamica” e 5.000 “proattivo/a” su LinkedIn). Che non interessano a nessuno.

Sono decenni che Dale Carnegie spiega che agli altri, di noi, interessa poco: tutti sono interessati solo a se stessi. O parli di loro o parli per niente. Come puoi essere utile agli altri? Quindi: “ho due lauree e un master” NO, ma “aiuto le piccole e medie imprese della Lombardia a esportare in Cina” SÌ.

Quando si fa Personal Branding, per rendere una comunicazione efficace devi differenziarti dai concorrentipuntando sul dare valore. Per almeno due motivi: evitare la commoditizzazione (se siamo tutti uguali, la differenza la farà il prezzo, ovviamente al ribasso) e puntare sulla memorabilità (perché qualcuno dovrebbe notarti, ricordarsi di te e soprattutto sceglierti?).

Un corretto posizionamento, secondo il brand positioning, parte anche da una specializzazione: nella società del terziario avanzato si cercano gli specialisti, non i generalisti. Non ci sono più gli “allevatori di bestiame” ma, tra i tanti, gli “addetti alla fecondazione artificiale della specie suina”. Quando ho smesso di fare il giornalista professionista ho fatto un grosso errore. Il panico da mutuo e la prima figlia in arrivo mi hanno fatto mettere il piede in più scarpe: facevo il giornalista online ma anche il blogger, il social media manager ma anche il formatore sulla comunicazione digitale, per non dire altro. Zac-zac, ho tagliato un po’ di cose, quasi tutto, e ora mi presento solo come formatore.

Se fai troppo, non fai nulla davvero bene. E se fai cose troppo diverse, non sei credibile. Su LinkedIn ho incrociato un tizio che fa l’architetto, il designer, il grafico, il fotografo, il producer musicale e il consulente pensionistico. Uno, nessuno e centomila.

A proposito, la conosci la storia delle lasagne di Colgate? Scoprila in questo video:

4. Non alimentare la comunicazione

Quando ti sei posizionato, con i tuoi bei ‘Riepilogo’ e ‘Headline’ su LinkedIn o nella pagina ‘Chi siamo’ del sito Web, sei al punto di partenza, non di arrivo.

“Non si può non comunicare”: quest’altro celebre assioma di Paul Watzlawick – noto psicologo e filosofo tra i più importanti esponenti dell’approccio sistemico – sta a indicare che la scelta di non comunicare è essa stessa comunicazione. Non usi i social e il Web? Quello che percepisce il pubblico – per esempio clienti o partner – è un silenzio assordante, che può significare tante cose: snobismo o incapacità.

Bene, ma che cosa comunicare? Esistono, nel piano (editoriale) perfetto, tre tipi di contenuti con i quali puoi rimpinguare il tuo blog e le bacheche di LinkedIn, Facebook, Twitter, Instagram o altro: i contenuti WHO, dove parli di te, i contenuti WHAT, dove parli delle tue soluzioni, e infine i contenuti WHY, gli unici che fanno davvero breccia nel pubblico. Non dovresti parlare di te o venderti a tutti i costi: devi parlare del pubblico, di quello che interessa davvero a chi legge: i suoi bisogni, i suoi problemi, i suoi sogni e le sue paure. Tutto il resto è un parlarsi addosso ormai insopportabile da parte di leader di settore senza settore.

Se vuoi seguire un corso gratuito sul Personal Branding, ti aspetto sul sito gianluigibonanomi.com.

 

LinkedIn, cinque motivi per i quali dovresti chiedere le segnalazioni

All’evento di lancio della mia società Four S.r.l. ho raccontato che esistono tre modi infallibili per… far fallire il proprio profilo LinkedIn. Il terzo è non far emergere la tua bravura, l’autorevolezza, chiedendo delle segnalazioni. Gli altri due potete scoprirli vedendo il video:

Aggiungo altra carne al fuoco. I motivi per cui dovresti chiedere le segnalazioni, che in inglese si chiamano Recommendations (un tempo LinkedIn le chiamava “raccomandazioni” ma ha ben presto capito che in Italia la parola è devastante) sono addirittura cinque, secondo me.

  1. Il primo motivo l’ho già svelato, ma per i latini ripetere giova. Nell’era di Tripadvisor e Amazon, dove i clienti scelgono prodotti e servizi basandosi sulle recensioni dei pari (in ambito accademico si parla di “peer review”), parte del marketing delle aziende si basa ora sulla ricerca delle testimonianze. Deve essere così anche per i professionisti, che possono far leva sull’effetto psicologico del rinforzo sociale; noi umani in realtà siamo delle bestie, chi-più-chi-meno: scherzi a parte, siamo animali sociali e come tali preferiamo seguire il branco, la massa.
  2. Sempre in termini di personal branding, mi rifaccio all’ultimo libro di Robert Cialdini (mio guru, ho inserito il suo “Le armi delle persuasione” tra i dieci libri che mi hanno cambiato la vita). In “Presuasione”, del 2017, Cialdini spiega che per assicurarsi i vantaggi dell’attenzione canalizzata, la chiave è mantenere fisso il centro focale: basta coinvolgere le persone nella valutazione di un’azienda per indurle ad apprezzarla di più. Una tattica sempre più impiegata da vari operatori è infatti quella di chiedere un giudizio sui loro prodotti e servizi; ma solo su questi, mai citando la concorrenza. Ecco il perché di richieste apparentemente mirate solo a raccogliere dei dati per migliorare il servizio clienti; in realtà l’attività permette di concentrare l’attenzione sugli aspetti più favorevoli dei prodotti e servizi, a spese dei competitor. Capito l’antifona?
  3. Tutti noi stiamo sul mercato perché risolviamo un problema, altrimenti non si capisce perché qualcuno dovrebbe darci i suoi sghei, che dalle mie parti si chiamano dané. In pratica possiamo trasformare la testimonianza in un “case study” (meglio non usare l’espressione “case history”, che nel mondo anglosassone fa riferimento alle anamnesi) per dimostrare non solo che siamo bravi a risolvere i problemi, ma quali sono e come li affrontiamo. Per questo ci sono anche i progetti, in una sezione LinkedIn a sé, ma ti rimando al punto 1 per sottolineare il fatto che se sono altri a dire che siamo bravi, probabilmente siamo bravi davvero.
  4. Chiedere e dare segnalazioni è un ottimo modo per coltivare le relazioni. Visto che parliamo di social (ricordo che LinkedIn è un social media, strumento per pubblicare contenuti, ma è soprattutto un social network, un rete sociale) è d’obbligo coltivare al meglio i rapporti con i collegamenti, anche con quelli già acquisiti. La cosiddetta nurturing andrebbe alimentata con i contenuti, ma anche i contatti diretti non guastano, anzi.
  5. Conosci te stesso: l’iscrizione che si trovava sul tempio di Apollo è valida ancora oggi. Ma per conoscere noi stessi non basta solo un percorso introspettivo, dipendiamo dai feedback altrui. Se chiediamo a qualcuno di parlare di noi, questo potrebbe sorprenderci. Personalmente mi è capito di rimanere di sasso di fronte a quanto hanno scritto i miei segnalatori. Una volta, in particolare, mi è caduta la mascella. La responsabile marketing di una azienda con la quale lavoro da tempo ha scritto: “Gianluigi è una di quelle rare persone in grado far accadere le cose”. Insomma: il quinto motivo per cui dovresti chiedere una segnalazione è che hai già l’epitaffio pronto.

L’articolo su Digital4

Ho approfondito questo tema sul magazine per executive Digital4:

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