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“33 dialoghi tecnologici con nativi digitali”: il mio articolo per Agendadigitale

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Questo articolo è stato pubblicato su Agendadigitale con il titolo “Ma come parlano i “nativi digitali”: prove di dialogo tecnologico“.

I temi della privacy, sicurezza, social network, fake news e pericoli della rete in generale condensati in trentatré botta e risposta con i ragazzi delle scuole italiane. Da strimmare al cognome di Google, quante scoperte

Da anni giro le scuole di mezza Italia per incontri sull’uso consapevole della tecnologia e non solo. Spesso si parla di privacy, sicurezza, social network, fake news e pericoli in generale. Da un paio d’anni ho deciso di appuntare i dialoghi e le domande più strani, per realizzare una specie di “io speriamo che me la cavo 2.0”. Ecco trenta reperti.

Privacy

Prima media, workshop sulla privacy. Devono scrivere le regole. Eccone alcune, con i miei commenti:

  • “Non parlare mai con nessuno” (ottimo per misantropi)
  • “Non comprare droga e armi su siti insicuri” (meglio farlo su Groupon, così oltretutto risparmi)
  • “Non blastare” (questo era un parente di Mentana pentito)
  • “Non usare password insicure come quella di mia madre, che è 123456” (un compagno ha provato subito a entrare nella Gmail della madre)

Fake news

Workshop in una scuola media (secondaria di primo grado, pardon), parliamo di accesso alle informazioni e fake news.

Un ragazzo dice:  “Ho letto che l’ossigeno è una droga: ti fa vedere una realtà alternativa, che non esiste. Se potessimo smettere di respirare, vedremmo la realtà com’è davvero”.

– Sembra una bufala messa in circolo dalla lobby dell’anidride carbonica.

– Dice sul serio?

– No, ma è più credibile il terrapiattismo.

Il test CAPTCHA

Seconda media, faccio fare un esercizio al PC.

Un dodicenne alza la mano:

– Prof, Google mi chiede se sono un robot. Che cosa devo fare?

– Niente: se non hai superato il test CAPTCHA, sei un robot.

– Davvero?

Analfabetismo funzionale

Parlo di fake news e analfabetismo funzionale, a un certo punto dico che il linguista Tullio De Mauro è scomparso.

Uno alza la mano: – In che senso scomparso?

Rispondo: – Eh, è un eufemismo per dire che è morto!

Lui: – E hanno fatto sparire il cadavere?

Dati personali

– Ragazzi, state attenti alle condivisioni di informazioni personali, anche con i vostri amici.

Un ragazzo: – Ma io non ho amici!

– Beh, non hai problemi di privacy.

Il cane di Chiara Ferragni

Seconda superiore:

– Forse non sapete che il cane di Chiara Ferragni ha 300mila follower su Instagram…

In coro: – MATILDA FERRAGNI!

Bufale napoletane

– Qualcuno sa perché le fake news si chiamano bufale?

Un ragazzo: – Le avranno inventate i napoletani.

I terrapiattisti

– Prof, a proposito dei terrapiattisti, lei sa dove ci si iscrive?

Pedofilia

Corso sul benessere digitale in una scuola superiore. Mostro una slide sull’uso di Snapchat. Un ragazzo alza la mano e chiede: – Se gli utenti sono soprattutto minorenni, quei pochi anziani sono tutti pedofili?

La matrice di Eisenhower

Corso in una prima superiore sul benessere digitale. Esercizio sulla matrice di Eisenhower. Una ragazza ha scritto:

Importante e urgente: non ingrassare

Importante ma non urgente: Games of thrones

Urgente ma non importante: tagliare le unghie

Non urgente e non importante: leggere le Stories di Chiara Ferragni

Google+

Workshop in una classe prima media su social e privacy:

– Che piattaforme social usate?

Ne elenchiamo parecchi, uno alza la mano: “Google+”.

Era talmente inutile che nessuno si è accorto che l’hanno chiuso.

Uso consapevole dei social

Prima media, workshop sull’uso consapevole dei social.

Uno dice:

– A mio padre escono donne nude da tutte le parti…

– E non hanno freddo?

– Ahahahah, ma perché ci sono quelle foto nelle sue pubblicità?

[Qui ho taciuto la verità sul retargeting e, soprattutto, sulle abitudini del padre.]

– OK, ora spiego a tutti cos’è lo spam.

Il duro lavoro del giornalista

Terzo media, mi si avvicina un tredicenne:

– Che cosa devo fare per diventare un giornalista?

– Niente! Così ti abitui alla disoccupazione.

Netiquette

Workshop sui social in una terza media, parliamo di netiquette: faccio scrivere delle regole. Uno scrive: “Se bestemmi online, sostituisce la parola DIO con tre asterischi”.

A proposito di Influencer

Uno mi chiede: “Prof, se ho 35 follower su YouTube, posso essere definito un influencer?”

Fidanzate e dark web

Sicurezza online, un ragazzo alza la mano:

– Un mio conoscente ha comprato delle fidanzate su dark web.

Secondo me non erano proprio fidanzate, ma non lo dico.

Facebook e gli Iron Maiden

Scuole medie, ho davanti un centinaio di undicenni. Chiedo quanti usano WhatsApp: tutti. Quanti Instagram: oltre la metà. Quanti Facebook: nessuno. Perché? chiedo.

Alza la mano una ragazzina:

– Prof, Facebook è vecchio, l’hanno creato tantissimi anni fa e con noi non c’entra niente.

Indossa una felpa degli Iron Maiden.

Copyright o copyleft?

Scuole medie, alla mia domanda su che cos’è il copyright, uno mi ha risposto: “Copiare con la mano destra”.

Privacy 2

Seconda media:

– Qualcuno di voi ha avuto problemi relativi alla privacy?

– Io!

– Che cosa ti è successo?

– Una volta un signore mi ha fatto un sacco di foto al parco.

– Lo conoscevi?

– No, ma adesso so chi è perché l’hanno arrestato.

Voce del verbo strimmare

– Prof, ma lei strimma?

– No, ma se non la pianti strillo.

Intendeva chiedermi se faccio lo streaming, credo delle partite ai videogiochi (si dice “streammare su Twitch”, per esempio).

Il concetto di reato

– Prof, ma se io ho un telefono non tanto bello, tipo l’iPhone 5S, e trovo per terra un Huawei P10, posso tenerlo? Cioè, è giusto o è un reato?

Lo sfondo del desktop

– Prof, ma lei è su Internet!

– Davvero?

– Sì, guardi!

[Mi mostra il mio sito sul suo PC.]

– Porca miseria, hai fatto bene ad avvisarmi.

– Si figuri, ora posso mettere la sua foto come sfondo del desktop?

Il motore di ricerca

Chiedo in una prima media:

– Che cosa si intende per “motore di ricerca”?

– È un motore.

– Un motore per fare cosa?

– Per cercare.

– E che cosa cerca questo motore?

– Se stesso.

Il cognome di Google

Qual è la differenza tra Google e Google Chrome?

– Chrome è il cognome.

– Il cognome di chi?

– Di Google!

Hacker e consenso

Lezione in una scuola media. Chiedo di definire le regole per l’uso della Rete, dei social, delle app di messaggistica. Un ragazzo dice: – Bisogna dare il consenso agli hacker.

Dipendenza dalla rete

Corso sul benessere digitale alle superiori. Una cinquantina di ragazzi hanno fatto un test sulla dipendenza dalla Rete. Uno ha chiesto se il test poteva farlo online e non con carta e penna. Gli ho detto che poteva anche non farlo, il test.

I criteri di Aranzulla

– Cercate i criteri per smascherare i fake.

Uno alza la mano: – Prof, in base ai criteri di Aranzulla io sono un fake. È vero?

Il VAR

Prima media, lezione sulla privacy online. Spiego che cos’è un’informativa.

Un ragazzo alza la mano. Prima che gli conceda la parola, fa il gesto del VAR: – Non ho capito bene e volevo la moviola.

Al ladro!

Workshop su sicurezza e privacy. Spiego che alcuni ladri scoprono su Facebook quali case svaligiare.

Un ragazzo alza la mano:

– Anche mio padre!

– Tuo padre svaligia gli appartamenti?

– No, volevo dire che anche mio padre lo dice.

La password

Workshop su privacy e sicurezza online. Discorso password, un ragazzo alza la mano:

– Posso usare come parola-chiave la mia data di nascita?

– No.

– Allora devo cambiarla.

– Domani mattina di’ ai tuoi di accompagnarti all’anagrafe.

Cosa non fare online

Domanda in una prima media: che cosa non fareste mai online?

Ragazzino: “Il mio papà mi ha detto di non fare il pedofilo”.

L’anti-influencer

– Parliamo degli influencer

Uno, triste, alza la mano e dice:

– Io sono l’anti-influencer, prof!

– Che cosa vuol dire?

– Ho un solo follower.

– Beh, almeno uno ti segue.

– Già. Ma sono io: è il mio account fake.

Cialtronaggine e scetticismo

– Prof, Ma chi ci dice che lei non sia un cialtrone?

Forse ho esagerato nell’insistere sullo scetticismo.

LinkedIn: ecco le 12 peggiori headline di sempre [articolo per Agendadigitale]

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LinkedIn: ecco le 12 peggiori headline di sempre

(articolo pubblicato su Agendadigitale il 18 ottobre 2019)

La headline è la parte più importante, vista e utile del profilo LinkedIn. Se ben fatta può aiutare le persone a capire quello che puoi fare per loro. Non molti curano questa sezione del profilo, ma qualcuno esagera in senso contrario. Vediamo dodici esempi da non seguire.

Nei miei corsi sull’uso strategico di LinkedIn spiego che la headline, in pratica quel testo che accompagna il nome e che solitamente contiene il proprio “job title”, è la parte più importante, vista e utile del profilo. Se ben fatta può aiutare le persone a capire non tanto chi sei e che cosa hai fatto, ma quello che puoi fare per loro. Per esempio una headline “Junior Account Assistant” non ha molto senso, mentre “Assistente virtuale – Aiuto imprenditori e professionisti ad alleggerire il carico di lavoro” (esiste davvero) può generare opportunità di business.

Non molti curano questa sezione del profilo, ma qualcuno esagera in senso contrario. Qui ho raccolto le 12 headline peggiori che mi è capito di vedere su LinkedIn. Finora.

Quella che ha voglia di lavorare. Ma tantaaaaa!

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Quello che fa la “supercazzola”

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Il beato

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Il pensionato

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Quello che si insulta da solo

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Il mancato terrorista

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Il libero comunista

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Quello che aspetta la cassa integrazione

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Il calciatore mancato

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 E il mancato biografo…

Quello che cerca aiuto

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E quello che aiuto non lo cerca più

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Preciso che tutti i profili sono veri e online, ho evitato i fake palesi. Se hai trovato su LinkedIn qualche headline peggiore di questa, ti prego di segnalarla nei commenti. Il mio sogno è quello , un giorno, di aggiornare il mio job title con “Stupid LinkedIn headlines hunter”.

Il videocorso per la ricerca del lavoro online su Agendadigitale

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Ho inserito il mio videocorso gratuito sulla ricerca del lavoro online in un articolo che ho scritto per Agendadigitale e che riporto integralmente qui.

Come imparare a cercare lavoro da Mourinho e Leonardo da Vinci (videocorso)

Quasi tutte le persone che cercano lavoro, online o meno, fanno lo stesso banale errore: mandano a tutti lo stesso CV, con la medesima lettera di accompagnamento, ormai diventata una mail. Ecco un videocorso per cercare un impiego, gestire la reputazione online, i social ed evitare le truffe.

Nei primi mesi del 2016 il Manchester United, una delle più gloriose squadre di calcio del pianeta, era allenato da uno dei tecnici più quotati, Louis van Gaal. Ma le cose non andavano per niente bene. Per la sua sostituzione sulla panchina dei Red Devils si fecero diversi nomi, ma uno più di altri bramava quella panchina: José Mourinho.

Lo “Special One” fece di tutto per farsi assumere. La leggenda narra che il portoghese inviò ai dirigenti del Manchester United una auto-candidatura, un curriculum… speciale: un dossier di qualche pagina per convincere la proprietà del club a ingaggiarlo. Un atto d’amore verso il club dell’Old Trafford, ma soprattutto uno studio dettagliato sui problemi del club e sulle sue proposte per risolverli, in termini di uomini e di metodo.
Un articolo della Gazzetta dello Sport dell’epoca recitava:

“Secondo l’Independent on Sunday, l’allenatore portoghese ha elencato tutti i problemi della squadra, evidenziando come proprio lui possa essere l’uomo giusto per il cambio di marcia.”

Risultato? Assunto.

L’auto-candidatura di Leonardo Da Vinci

Il furbo José non ha inventato nulla. Qualche secolo prima, precisamente nel 1482, Leonardo da Vinci lasciò Firenze per Milano. Per farsi “assumere” alla corte di Ludovico Sforza detto il Moro, inviò al duca una lettera dove elencò tutte le sue abilità, ordinate in 10 punti(in pratica usava le liste prima che imperversassero online). Problema del datore di lavoro, soluzione su un vassoio d’argento. Per esempio:

“[…] Farò carri coperti, securi et inoffensibili, i quali entrando intra li inimica cum sue artiglierie, non è si grande multitudine di gente d’arme che non rompessino. Et dietro a questi poteranno sequire fanterie assai, illesi e senza alcun impedimento”.

Risultato? Assunto pure lui.

Come cercare lavoro online

Quasi tutte le persone che cercano lavoro, online o meno, fanno invece lo stesso banale errore: mandano a tutti lo stesso CV, con la medesima lettera di accompagnamento, ormai diventata una mail.

Ripeto: mandano gli stessi documenti a tutti: pizzicagnolo sotto casa, Esselunga o Apple.

Chi riceverà la candidatura ha un problema: c’è un posto vacante nella sua azienda e occorre trovare una persona capace, se possibile anche in fretta. Il responsabile della selezione è immerso nei suoi problemi personali, non gli importerà nulla dei tuoi; ha quasi certamente un capo o un intero reparto che fanno pressione affinché risolva quel problema, trovi la persona giusta.

È per questo che quando si manda un CV non bisogna concentrarsi su sé stessi (ho fatto questo, ho fatto quello…) ma su quel problema e su quel destinatario (a proposito: come si chiama il destinatario? Bisogna sempre scoprire il nome del responsabile della selezione, per esempio usando LinkedIn).

Perché stai mandando il curriculum? Semplice: perché hai trovato l’inserzione online e, date le tue esperienze e le tue qualità, saresti la persona giusta per quel posto. Occorre dirlo, fare in modo che la mail di accompagnamento porti all’apertura del CV per un approfondimento. Lo stesso ragionamento vale se, invece di un lavoro, stai cercando clienti.
Per approfondire questi temi, e vedere come si cerca lavoro ai tempi del Web, ho realizzato il videocorso che trovi qui sotto.

Il videocorso per la ricerca del lavoro

A che cosa serve Internet quando si parla di ricerca del lavoro? Solo a scovare le offerte e candidarsi? No! Ho realizzato un percorso, articolato in cinque video, dove vedrai come cercare un impiego, gestire la tua reputazione online, i social ed evitare le truffe.

Introduzione al corso

Come si cerca lavoro? Ma soprattutto: come lo si trova? Negli ultimi anni Internet è diventato uno strumento fondamentale, non solo per intercettare delle opportunità ma anche per informarsi, prepararsi, studiare. In questo video introduttivo ho raccolto un po’ di dati e qualche dritta.

Le offerte di lavoro

Quando si parla di offerte di lavoro, sai che differenza c’è tra motori di ricerca, siti di offerte e autocandidature? Ecco quali sono i siti migliori dai quali partire e che cosa sono le job alert.

Curriculum e lettere

Nell’era della ricerca del lavoro online ha ancora senso parlare di curriculum vitae e lettere di accompagnamento. Certamente sì. In questo video spiego qual è il giusto approccio per creare documenti che non siano cestinati.

Concludo con “easter egg” per farci una risata.

Social network e monitoraggio

Una persona su tre non viene chiamata al colloquio di lavoro per quello che ha pubblicato sui social. È quindi fondamentale gestire correttamente questi canali (da LinkedIn a Facebook, senza trascurare Instagram e gli altri) e monitorare la propria reputazione online. In questo video presento alcuni strumenti online gratuiti per farlo.

Le truffe

Purtroppo il mondo della ricerca online fa registrare anche moltissimi tentativi di truffa: in questo video passo in rassegna i più frequenti e do alcune indicazioni per non cascarci.

 

Le cose da sapere su TikTok nel mio articolo per Agendadigitale

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Agendadigitale.

TikTok: cinque cose da sapere sull’app più amata dagli adolescenti

Piccolo prontuario di autodifesa per genitori di adolescenti e preadolescenti rapiti dall’app di video-playback

rima conosciuta come Musically, ora come TikTok, l’app per girare e condividere brevi video divertenti online sta imperversando: è presente sugli smartphone di milioni di utenti, per lo più preadolescenti e adolescenti, anche in Italia. In questo decalogo diamo tutte le informazioni utili per i genitori che vogliono saperne di più sul trend del momento.

Che cos’è TikTok?

Sul sito ufficiale si legge che “TikTok è la piattaforma leader al mondo per quanto riguarda i video brevi. […] TikTok consente a tutti di diventare creatori usando direttamente il proprio smartphone e si impegna a costruire una comunità che incoraggi gli utenti a condividere le loro passioni e ad esprimersi creativamente attraverso i loro video”.
Ma, in pratica, che cos’è?

L’app permette di creare brevi video (da 15 a 60 secondi) che sono il contrario del karaoke, dove si canta su una base. In questo caso, invece, parliamo di una sorta di playback: gli utenti simulano, muovendo le labbra a tempo, la recitazione di una scena famosa di un film o fingono di cantare la hit del momento.

Qui trovi una compilation di video tratti dalla app:

Era Musically, perché ha cambiato nome?

Fino a un anno fa tutti usavano Musically, ora TikTok (Douyin, in cinese). Non hanno cambiato app, le cose stanno così. Nel 2017 l’azienda cinese ByteDance ha acquistato Musical.ly, poi l’anno successivo ha unito le piattaforme TikTok e musical.ly, tenendo TikTok come nome unico.

Come segnalato dal sito Intreccio“Il passaggio da Tik Tok, nome onomatopeico che ricorda il suono delle lancette di un orologio, a Musical.ly è avvenuto  attraverso un aggiornamento dell’app con un passaggio dei dati in automatico ed è stata annunciato con l’hashtag #MakeEverySecondCount, Rendi ogni secondo meritevole”.

I numeri di TikTok

TikTok è, come anticipato, un successo: basti pensare che è l’app (disponibile per iOS e Android) più scaricata al mondo nel primo trimestre del 2018, con circa 45,8 milioni di download. Ora vanta oltre 800 milioni di utenti nel mondo. In Italia? Secondo Vincenzo Cosenza “gli utenti italiani di TikTok sono oltre 2,4 milioni, prevalentemente teenager. Per il 65% sono donne. L’uso quotidiano è di 34 minuti. Le visualizzazioni di video mensili ammontano a 3 miliardi”.
Perché ha tanto successo? Oltre a dare la possibilità ai ragazzi di mettersi in mostra, l’arma segreta di quest’app è la gamification, ovvero le sfide. Ogni settimana TikTok propone una “scommessa”, come per esempio il “Shoe challenge”, vale a dire la sfida di indossare il maggior numero di scarpe nei 15 secondi a disposizione, il tutto a tempo di musica.
Ecco alcuni video di esempio della shoe challenge:

Un miliardo di video visti ogni giorno: non solo video playback musicali e scarpette. Si contano alcune altre categorie di filmati: si va da quelli di danza a quelli pet, con protagonisti cani e gatti in tutte le pose; oppure vanno per la maggiore i video comici sui tipici temi adolescenziali (relazioni, denaro e aspetto fisico); molti video sono girati per mettere in mostra particolari abilità (per esempio: longboarding, variante dello skate, e parkour, percorsi a ostacoli particolari). Spopolano anche i tutorial e ovviamente le comparsate dei VIP.

Come guadagna TikTok?

Abbiamo appena fatto cenno alla sfide. Queste, usate per stimolare gli utenti a produrre video, possono essere sponsorizzate dai brand per farsi pubblicità. Altri modi di monetizzare: pubblicità nel feed degli utenti, come avviene in Instagram e in tutti gli altri social, video di brand con call to action, maschere brandizzate (lens) da fare scaricare agli utenti.

Perché TikTok è una piattaforma da monitorare?

TikTok è un social a tutti gli effetti, con i noti problemi di queste piattaforme: dalla dipendenza al rischio depressione (gli adolescenti vedono solo il lato divertente della vita altrui), dal cyberbullismo all’adescamento. C’è anche un tema privacy: la Federal Trade Commission ha inflitto un’ingente multa (5,7 milioni di dollari) a TikTok per non aver rispettato il COPPA (Children’s Online Privacy Protection Act), che prevede il consenso dei genitori per il trattamento dei dati dei minori di 13 anni.

Come impostare le restrizioni? Nel profilo dell’utente, occorre fare clic sui 3 punti che si trovano nell’angolo in alto a destra. Qui bisogna selezionare “Impostazioni privacy”, quindi fare clic su “Privacy e sicurezza. Per gli utenti giovani conviene disattivare l’opzione “Consenti ad altri di trovarmi” e attivare, invece, “Account privato” (come in Instagram). Per una protezione aggiuntiva, poi, occorre limitare le interazioni con commenti, duetti e messaggi ad amici. Su pornolescenza trovi il dettaglio delle istruzioni.

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Smart city: 10 esempi concreti (il mio articolo per Agendadigitale.eu)

Questo articolo sulle Smart City è stato pubblicato su Agendadigitale.eu il 22 novembre 2018.

Dieci esempi concreti di smart city ispirati dal libro “Un new deal digitale” di Bas Boorsma e dallo studio di Assolombarda“Smart cities tra concetto e pratica”. Con la convinzione che la smart city non è un insieme di soluzioni, bensì un approccio diverso su come risolvere i problemi delle comunità e del territorio

Da anni si parla ormai di smart city e il rischio che resti una “buzzword”, solo un concetto di moda, è altissimo. Per evitarlo ho voluto raccogliere in questo articolo dieci esempi concreti: dimostrano che la città non solo è intelligente, ma anche attualissima.

Mi è capitato di leggere l’interessante libro “Un new deal digitale” di Bas Boorsma, tradotto da Donata Delfino con la collaborazione di Raffaele Gareri, presidente dell’associazione “The Smart City Association Italy”. Il testo, corposo e completo, affronta tutti i temi legati alle Smart City, dalla progettazione all’etica, dalla tecnologia alla sociologia, dai soggetti in campo ai rischi. E fa molti esempi concreti legati al concetto di big data, eccone cinque.

  • In India la tecnologia blockchain viene utilizzata per il rilascio del documento di identità, sostituito da un numero di 12 cifre con input biometrici. Il sistema è usato per pagare le tasse, votare e chiedere contributi. Lo SPID, il Sistema Pubblico di Identità Digitale italiano, va in questa direzione.
  • La piattaforma Watson di IBM può aiutare un oncologo nel suo lavoro: sfruttando i dati raccolti da 20.000 riviste scientifiche, dà consigli su misura che nessun medico o equipe sarebbe in grado di dare. Il prossimo passo sarà fare le diagnosi partendo dall’analisi del DNA.
  • I big data possono aiutarci nella lotta contro il terrorismo. Per esempio Palantir permette di costruire modelli grafici integrando diverse fonti di informazione (dalle transazioni bancarie di tutto il mondo alla quantità di pioggia caduta in una determinata zona), con strumenti di advanced analysis.
  • Per entrare direttamente in una smart city, parliamo delle strade. In futuro la raccolta dei dati permetterà di accendere la luce quando davvero serve o abbassare i prezzi dei parcheggi in un quartiere, in tempo reale, per ridurre la congestione di altre zone della città.
    Un ottimo esempio è quello di Cisco Kinetic for cities: un software che raccoglie, aggrega e fa convergere dati provenienti da settori come mobilità, rifiuti, illuminazione, ambiente, pubblica sicurezza e acqua, poi li visualizza e ne evidenzia le correlazioni in modo da reagire a moltissimi eventi, anche inattesi, con provvedimenti adeguati.
  • Come sottolineato da Dino Maurizio proprio su questo sito (Quali passi per rendere smart una città con i big data: casi di studio) è molto difficile trovare esempi italiani. Del resto Intel e Juniper Research mettono Singapore, Londra, New York, San Francisco e Chicago al top tra le città più virtuose: nessuna città italiana, e nemmeno europea. Eppure qualcosa, anche da noi, si sta muovendo: per esempio Venezia ha messo a punto un sistema misto di telecamere, sensori laser e infrarossi capaci di contare le persone presenti in città in tempo reale.

Dopo gli esempi ispirati dal libro di Boorsma, altrettanti li prendo da “Smart cities tra concetto e pratica”, studio di Assolombarda.

  • Amsterdeck è un sistema di “water quality monitoring”, ovvero di controllo della qualità dell’acqua della città di Amsterdam.
  • Il progetto MONICA, utile per ridurre l’inquinamento acustico, ha visto tra le città capofila anche Torino. Si stanno sperimentando dal 2017 tecnologie per il controllo e la gestione del rumore e indossabili (wearables) per la sicurezza.
  • Il progetto Zero Traffic Deaths In San Francisco by 2024 consiste nell’applicare a taxi e autobus tecnologie di machine learning, computer vision e robotica per ridurre gli incidenti su strada.
  • Il progetto National Steps Challenge di Singapore utilizza le wearable technologies per migliorare la salute dei cittadini.
  • Il progetto “Unteres Hausfeld” di Vienna permette, tra le altre cose, di ridurre l’utilizzo del cemento e sperimentare altri materiali meno inquinanti.

Che cos’è esattamente una smart city?

Una definizione di smart city. Secondo il report “Smart City Progetti di sviluppo e strumenti di finanziamento” dell’Osservatorio Smart City dell’ANCI, l’associazione nazionale dei Comuni italiani, si può definire Smart City “una città che, secondo una visione strategica e in maniera organica, impiega gli strumenti dell’ICT come supporto innovativo degli ambiti di gestione e nell’erogazione di servizi pubblici, grazie anche all’ausilio di partenariati pubblico-privati, per migliorare la vivibilità dei propri cittadini; utilizza informazioni provenienti dai vari ambiti in tempo reale, e sfrutta risorse sia tangibili (ad es. infrastrutture di trasporto, dell’energia e delle risorse naturali) sia intangibili (capitale umano, istruzione e conoscenza, e capitale intellettuale delle aziende); è capace di adattare se stessa ai bisogni degli utenti, promuovendo il proprio sviluppo sostenibile”.

Potrei continuare all’infinito: gli esempi, anche eclatanti, non mancano. In ogni caso, va ribadito, la smart city non è un insieme di soluzioni, bensì un approccio diverso su come risolvere i problemi di una comunità e di un territorio. Quindi ogni territorio, pur partendo dai casi pratici di altri, deve riflettere sulla propria storia e contesto, e individuare o definire il proprio percorso “smart” che si concretizzerà attraverso proprie soluzioni (magari anche diverse da quelle altrui) costruite secondo nuove logiche di business, partenariato, sostenibilità, inclusione e, in definitiva, secondo modelli di ecosistema.

Digital storytelling, ecco perché avremo sempre bisogno di storie

Questo articolo è stato pubblicato su Agendadigitale il 5 settembre 2018

Le storie servono all’essere umano, da sveglio e mentre dorme, per dare ordine all’esistenza o simulare le azioni per prepararsi alla vita adulta. Ecco dieci importanti insegnamenti che si posso trarre dal libro “L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani” di Jonathan Gottschall

In un mondo digitale dove siamo sommersi da informazioni e dati, la soluzione per vincere la guerra dell’attenzione di utenti e lettori è lo storytelling, o meglio il digital storytelling. Per comprendere perché le storie non sono puro intrattenimento, ma uno strumento di sopravvivenza fondamentale, ho deciso di studiare il bel libro “L’istinto di narrare. Come le storie di hanno reso umani” di Jonathan Gottschall (un suo Ted sullo storytelling).

In questo post riassumo i dieci insegnamenti più importanti che ho tratto dal libro e che possono giustificare ogni strategia di comunicazione digitale basata sulle storie: spunti di varia natura, che affondano le loro radici nella biologia, nella psicologia evoluzionistica, nella letteratura e nella storia. Scoprirai perché gli umani hanno bisogno delle storie, e come tutto sia narrazione: dai giochi infantili ai sogni, dalla Storia alle teorie del complotto, fino alla religione e alla scienza.

Dio creò l’uomo perché gli piacciono le storie

Abbiamo, noi umani, come specie, una vera dipendenza dalle storie. Nel libro ho ritrovato questa bella citazione di Elie Wiesel:

Dio creò l’uomo perché gli piacciono le storie

La funzione narrativa è solitamente considerata un intrattenimento per evadere dalla realtà. Ma se questa teoria fosse vera, sarebbe lecito aspettarsi solo storie a lieto fine. Tutto dovrebbe andare bene, i buoni non dovrebbero mai soffrire. Non è così. Le storie migliori, e più utili, sono invece centrate sui problemi e sul conflitto: minacce, morte, disperazione, Sturm und drang. Anche l’intrattenimento leggero è organizzato intorno ai problemi, e i lettori rimangono inchiodati a immaginare come andrà a finire. Anche perché è un modo di vivere situazioni difficili senza subirne le conseguenze: è l’eroe a patire al posto nostro. Possiamo amare, condannare, perdonare, sperare, sognare odiare senza correre nessuno dei rischi che queste emozioni normalmente implicano.

Secondo i teorici dell’evoluzione le storie costituiscono un modo per esercitarsi a utilizzare le competenze più importanti della vita sociale, sono come simulatori. Anche perché, guardando o leggendo storie conflittuali, è come se le vivessimo, grazie ai neuroni specchioche ci fanno provare vera empatia per i protagonisti delle storie.

Le opere di narrativa sono più potenti delle opere di non fiction per influenzare le persone. Questo perché quando leggiamo opere non-fiction, i cosiddetti saggi, alziamo gli scudi, siamo critici e scettici. Ma quando siamo assorbiti da una storia, abbassiamo la nostra guardia intellettuale, siamo toccati emotivamente e questo pare lasciarci senza difese.

Fino a che punto siamo dipendenti dalle storie

Siamo talmente dipendenti dalle storie che le costruiamo continuamente, anche quando non avrebbe alcun senso. Allo stesso modo vediamo volti nelle nuvole o il volto di Gesù su un toast mezzo carbonizzato. Si parla di effetto Kulešov:

Nei primi anni ’20 del Novecento il regista sovietico Kulešov realizzò un breve filmato con inquadrature fisse: un cadavere in una bara, una ragazza avvenente e un piatto di minestra. Fece procedere tutte e tre queste scene dall’immagine del volto di un attore. Poi studiò le reazioni del pubblico. Quando veniva mostrato quel volto prima della minestra, l’attore sembrava esprimere fame; quando veniva mostrato prima del cadavere, pareva addolorato; quando veniva mostrato prima della ragazza, il suo volto pareva segnato dal desiderio sessuale. In realtà l’attore non interpretava alcuna emozione. Dopo ogni inquadratura, Kulešov aveva semplicemente inserito la sequenza identica di un attore che fissava impassibile la telecamera. Non c’era fame, né tristezza e tantomeno libidine sul volto dell’attore: erano tutte emozioni viste unicamente dal pubblico. L’esercizio dimostra fino a che punto non vogliamo stare senza una storia, e con quanta avidità lavoriamo per imporre una struttura narrativa a un montaggio privo di significato.

bambini di tutto il mondo adorano le storie

bambini di tutto il mondo adorano le storie e, verso i due anni, iniziano a dare forma ai loro mondi inventati. Le storie sono talmente fondamentali nell’esistenza infantile da essere in sostanza l’elemento che la definisce. La presenza del gioco in numerose specie animali ha un motivo preciso: giocare aiuta i giovani a simulare le azioni per prepararsi alla vita adulta. I bambini che giocano stanno allenando il corpo e il cervello per le sfide che affronteranno da grandi: stanno costruendo intelligenza sociale ed emozionale. Anche gli adulti sono molto simili a Peter Pan: si lasciano alle spalle automobiline e travestimenti, ma non abbandonano mai la finzione; cambiano solo il modo di praticarla. Romanzi, sogni, film e fantasticherie sono province dell’Isola che non c’è. E servono anche per darci un senso comune e un senso morale: la finzione narrativa esprime sempre un forte senso etico. Se i buoni fanno del male è sempre per una buona causa.

Anche i sogni sono storie

Anche quando il nostro corpo dorme, la mente sta sveglia tutta la notte, narrando storie a se stessa con i sogni. I sogni sono storie (e non simboli come vuole la tradizione freudiana): i ricercatori, parlando di sogni, non possono fare a meno di ricorrere al lessico dei corsi di scrittura: trama, prima, personaggi, scena, ambientazione, punto di vista, prospettiva.

Non smettiamo di sognare nemmeno di giorno. La mente, ogni qualvolta non è assorbita da un compito che richiede concentrazione, scivola immancabilmente nelle sue divagazioni. Alcuni studi dicono che un sogno diurno dura in media 14 secondi e ne produciamo 2000 al giorno. Trascorriamo la metà delle nostre ore di veglia, un terzo dell’esistenza, elaborando fantasie.

Le storie vendono, anche online

Le storie vendono, anche online. Basta considerare il wrestling, un insieme di sceneggiate. Ma anche negli altri sport come la boxe, dove invece gli scontri sono veri, i promoter hanno capito che gli incontri non attirano l’interesse dei tifosi a meno che non si punti su personalità sopra le righe, con intrighi e retroscena.
Le storie sono alla base anche della pubblicità. Uno spot non dice che un detersivo funziona bene, lo mostra attraverso la storia di una mamma indaffarata, dei bambini scavezzacollo e un trionfo di bucato bianco smagliante. Chi vende sicurezza stimola le nostre paure per indurci ad acquistare allarmi domestici, ci fa vedere scene di donne e bambini impotenti salvati, grazie a un particolare dispositivo, dall’intrusione di inquietanti sconosciuti. I gioiellieri mostrano storie in cui gli aspiranti fidanzati possono conquistare l’amore dell’amata. Non a caso molte aziende, al centro della propria comunicazione digitale, ora puntino sulle Stories di Instagram.

Anche la Storia è fatta di storie

Anche la Storia è fatta di storie, gli storici sono dei narratori. Qualcuno dice che alcuni fatti storici siano in realtà miti: vedi la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Allo stesso modo la politica è fatta di narrazioni, così come i processi e il giornalismo.
Le opere di finzione possono influenzare la Storia. Per esempio l’autore cita, tra gli altri, il caso de “La capanna dello zio Tom“: opera di finzione che però ha avuto un grande impatto per quanto riguarda la percezione della condizione degli schiavi, del razzismo, della guerra civile americana.

Tutte le tradizioni religiose si fondano su narrazioni

Tutte le tradizioni religiose si fondano su narrazioni. Preti e sciamani di tutto il mondo sanno da sempre ciò che la psicologia ha in seguito confermato: se vuoi che un messaggio penetri nella mente umana, inseriscilo in una storia. La religione è l’espressione massima del dominio della narrazione sulle nostre menti.

Le tendenze religiose sono un adattamento evoluzionistico, un effetto collaterale dell’evoluzione, o una qualche combinazione delle due cose. La più comune spiegazione secolare della religione è che gli umani inventano gli dei per conferire ordine e senso all’esistenza, trovare risposte per le grandi domande senza risposta. Perché sono qui? Chi mi ha fatto? Dove va il sole di notte? Perché partorire è doloroso? Che fine farò una volta morto? Ci serve la religione perché per natura aborriamo l’inspiegabile. Gli esseri umani evocano divinità, spiriti e spiritelli per colmare un vuoto, una mancanza di spiegazione.

David S. Wilson sottolinea che la religione è un’esigenza di carattere evoluzionistico: le società religiose hanno sconfitto grandemente i gruppi che, non avendo credenze comuni, erano più deboli, meno coesi, regolati e motivati. Gustav Jager disse che la religione può considerarsi un’arma nella lotta darwiniana per la sopravvivenza.

Anche la scienza è una grande narrazione

8. Non solo la religione, ma anche la scienza è una grande narrazione che emerge sempre dal bisogno di spiegare il mondo. Il carattere narrativo della scienza è evidente quando, per esempio, si tratta di indagare le origini dell’universo, della vita, dell’attitudine stessa a raccontare storie.

Il fascino delle teorie del complotto

Le teorie del complotto sono storie finzionali, a cui alcune persone credono con convinzione. I fautori delle teorie cospiratorie collegano dati reali e dati immaginari in una versione della realtà coerente ed emotivamente gratificante. Queste storie esercitano una presa fortissima sull’immaginazione umana: affascinano perché raccontano storie avvincenti, con la classica struttura basata su un problema e una netta definizione dei buoni e dei cattivi. C’è sempre un cattivo, e i cattivi si possono sconfiggere.

Le ipotesi cospiratorie sono riflesso del bisogno compulsivo della mente narrante di avere esperienze dotate di senso. Le teorie del complotto offrono risposte definitive un grande mistero della condizione umana: perché nel mondo ci sono tante brutture? Forniscono niente meno che una soluzione al problema del Male. Le teorie complottistiche sono sempre consolatorie, nella loro semplicità.

Il rischio di “diabete mentale”

Le storie stanno diventando una debolezza? Si può delineare un’analogia fra tra la fame di storie e la fame di cibo. La tendenza ad alimentarsi in eccesso è stata utile ai nostri antenati, quanto la scarsità di cibo era un problema all’ordine del giorno. Ma oggi noi moderni sedentari stiamo affogando nei grassi e negli zuccheri. Allo stesso modo consumare tante storie era fondamentale per i nostri antenati, oggi il nostro mondo è invaso da libri, lettori MP3, televisori e smartphone: le storie sono onnipresenti e abbiamo, nei romanzi rosa e nei reality show, qualcosa che è l’equivalente narrativo dei bomboloni fritti alla crema, scrive l’autore. Gottschall parla di rischio di “diabete mentale”.

Il vero rischio non è che in futuro le storie svaniscano dalla nostra vita, ma che ne assumano il controllo totale. Come ci mettiamo a dieta di cibo, dobbiamo evitare di abbuffarci di storie. O quantomeno scegliere quelle migliori, soprattutto online e nell’era dell’overload informativo.

L’uomo avrà sempre bisogno di storie

Il digitale sta cambiando radicalmente il nostro modo di fruire delle storie. Se proviamo a spiegare a un Millennial che un tempo, per vedere un film, dovevamo aspettarne la programmazione nei palinsesti televisivi, magari mesi dopo, oppure prendere l’auto e andare ad affittarlo da un Blockbuster, ci guarderà perplessi. È abituato alla soddisfazione immediata di qualsiasi desiderio, grazie allo streaming. Nell’era di Netflix si parla anche di “binge watching”, l’abitudine di divorarsi intere serie di seguito, un episodio dopo l’altro. Il digitale ha portato anche altre innovazioni impensabili fino a qualche tempo fa: possiamo mettere in pausa una diretta oppure possiamo iniziare a vedere un film sulla TV e finirlo sullo smartphone mentre siamo in coda alla Posta. Ma tutto questo non sposta di una virgola la questione di fondo: l’uomo ha e sempre avrà bisogno di storie.

Bambini e schermi (smartphone, tv): quante ore al giorno? Fa male? Che dice la scienza

N0ta: questo articolo è stato pubblicato su Agendadigitale.eu il 12 giugno 2018

Mai prima dei 18 mesi. Con un “piano di famiglia” oltre i sei anni. E poi buon senso e, soprattutto buon esempio. Ecco gli effetti degli schermi su salute e rendimento scolastico dei bambini. E le “regole” per un uso corretto dei dispositivi digitali, da parte dei bambini, ma anche degli adulti

l tempo dei bambini davanti agli schermi (“screen time”) cresce sempre più, fenomeno che si acuisce in estate (le scuole sono chiuse); ma è ormai un tendenza costante. E globale. E’ utile quindi vedere che dice la “letteratura scientifica”, a riguardo. Ossia le regole e le linee guida su cui i pediatri si stanno orientando al momento, a livello internazionale.

Del resto anche Apple di recente ha presentato uno strumento per controllare meglio lo screen time; così come Google. La premessa è che il ruolo dei genitori dei nativi digitali è quello di accompagnare i ragazzi, ma soprattutto di mettere dei paletti all’uso dei dispositivi elettronici, che non deve mai essere eccessivo.

Bambini e device, le regole dell’Accademia americana di pediatria

Prima regola: i device dovrebbero essere tenuti lontani dalla portata dei bambini più piccoli, almeno fino ai 18 mesiDai 18 ai 24 mesi va fatto un uso limitatissimo e sempre supervisionato dai genitori. Queste sono alcune raccomandazioni dell’Accademia Americana di Pediatria sull’uso di TV, PC, tablet e altre tecnologie da parte di bambini e ragazzi. Tra queste semplici regole, stilate da Jenny Radesky (pediatra presso la University of Michigan), ci sono anche quelle per i bambini dai due a cinque anni: tassativo non andare oltre un’ora al giorno di uso dei media e, anche in questo caso, sempre sotto la supervisione di un adulto. Oltretutto bisognerebbe sempre puntare su programmi e contenuti di alta qualità.
Oltre i sei anni ci vuole sempre un “piano di famiglia”: servono regole, sia per il tempo che per i contenuti. Il rischio, altrimenti, è quello di compromettere il sonno, rubare tempo all’attività fisica all’aperto e ai contatti interpersonali, faccia a faccia, e di compromettere il rendimento scolastico.

Tecnologia e rendimento scolastico

Prima di parlare delle regole, mettiamoci d’accordo: la tecnologia fa male oppure no? Ha delle conseguenze, per esempio, sul rendimento scolastico?

Partiamo dai fatti. L’uso della tecnologia, anche per studiare, è in netto aumento: sono sempre più le scuole che utilizzano Internet, LIM, tablet e notebook anche per le attività scolastiche. E sono sempre più i ragazzi che “sguazzano” nella tecnologia.

Il fenomeno è talmente rilevante che è stato protagonista di diversi studi scientifici. Come sottolinea Marco Gui (Sociologia della cultura dei media all’Università di Milano-Bicocca), i primi studi che mettevano in relazione il possesso di computer o la possibilità di usarlo a casa con i punteggi di apprendimento hanno trovato quasi sempre una relazione positiva, anche al netto delle variabili socio-demografiche delle famiglie. Il semplice possesso però vuole dire poco: praticamente tutti gli studenti hanno almeno un computer a casa.

Occorreva spostare il focus su frequenza e scopo d’uso di questi strumenti.

I risultati hanno evidenziato una relazione tra l’intensità d’uso del computer e di Internet e le performance scolastiche: nella maggior parte dei casi negativa. Si veda per esempio questo studio (Michigan State University-Harvard University), che collega il calo del rendimento scolastico soprattutto con la pratica (diffusa) di studiare in multitasking con chat e social network.

Detto in parole semplici: oltre un certo livello, quanto più i ragazzi utilizzano questi strumenti tanto peggiori sono i risultati ottenuti, nello specifico, nei test di lettura e di matematica. Tutto questo vale, chiaramente, se questi strumenti sono usati per svago.

A questo si aggiunge un recente studio dell’Associated Professional Sleep Societies sulle conseguenze negative dello screen time sul sonno dei bambini.

E se, invece, PC e Internet vengono utilizzati solo per studiare? Sempre secondo Gui, è lampante la relazione positiva tra la frequenza d’uso di Internet a casa per la scuola e i punteggi dei test Invalsi in italiano. Ciononostante, e anche in questo caso l’uso deve essere comunque moderato. Servono delle regole, come dicevamo.

Le regole per l’uso della tecnologia

Qualche anno fa Janell Burley Hofmann, mamma e blogger americana, decise di regalare al figlio Gregory un iPhone per Natale. Il regalo fu accompagnato da una lista di regole, redatte dalla stessa Burley, per l’uso dello smartphone e della Rete, che lei definì “iRules”. Dalle regole è nato un articolo per l’Huffington Post e un successivo libro che hanno riscosso successo clamoroso.
Che cosa c’era in quelle regole? Fondamentalmente molto buon senso.

  • Si parte dal presupposto che le regole debbano essere discusse e condivise. La Hofmann ipotizza anche l’istituzionalizzazione di momenti di confronto sulla tecnologia, che chiama “Tech talk”.
  • Dal punto di vista pratico una delle proposte è quella di realizzare un registro di casa che contenga gli account con relative password: se le parole chiave non devono mai essere condivise con gli amici, è fondamentale che i genitori abbiano sempre accesso agli account, soprattutto in caso di problemi; il tutto chiaramente senza violare la fiducia del ragazzo.
  • Altra regola fondamentale: il sonno prima di tutto. I pediatri sono concordi: il sonno discontinuo e interrotto causa disturbi di concentrazione e di salute nei ragazzi. Le regole di Janell prevedono che lo smartphone vada consegnato ai genitori alle 19.30 di ogni sera infrasettimanale e alle 21 nei weekend, con qualche eccezione in estate.
  • Ma la parte più interessante riguarda i contenuti. Dal punto di vista delle conversazioni, una delle regole prevede il non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
  • Per ciò che attiene foto e video, il buon suggerimento è quello di vivere le esperienze, non limitarsi a riprenderle ponendo lo schermo a ostacolo tra sé e il mondo.

Nelle altre regole sono incluse le buone maniere, netiquette (le regole della Rete, dette anche “galaReteo” e “retiquetta”) e che cosa fare in caso di emergenza (cyberbullismo, pornografia online e maleducazione).

Le regole per i genitori

E regole per i genitori? La prima considerazione è che non possiamo esimerci dal dare il buon esempio, soprattutto perché i ragazzi chiedono coerenza.

Giustificare la violazione sistematica di regole imposte ai ragazzi con l’essere adulti, come per esempio il non utilizzo degli smartphone durante i pasti, non solo ci renderà meno credibili nella circostanza contestuale, ma lascerà credere ai ragazzi che alcuni comportamenti siano sconvenienti solo per determinate fasce d’età mentre appare chiaro che molti rischi o problemi hanno carattere transgenerazionale.