Riscoprire Tommaso Labranca e il trash [Intervista Yugen Podcast]

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Vent’anni fa passavo le mie giornate online su it.arti.trash (con il nickname Moska). Appassionato del tema, studiai il testo fondamentale “Andy Warhol era un coatto” del mostro sacro Tommaso Labranca. Ne parlo in questa intervista per il podcast Yugen. Buon ascolto:

PS. Potete leggere il libro di Labranca in PDF qui:

ANDYWARHOLERAUNCOATTO

Trasformazione digitale delle aziende: 3 podcast imperdibili

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Pandemia, innovazione tecnologica a velocità mai viste, nuove opportunità legate all’on-line, smart working: tutto tira in una sola direzione, quella dell’innovazione digitale delle nostre aziende. Per comprendere il fenomeno esistono molti libri, articoli online, convegni, workshop ma io preferisco buttarmi sui podcast. Ultimamente ne ho scoperti tre, molto diversi, che ti propongo.

1) L’innovazione digitale a 360 gradi

Sul blog degli Osservatori Digital Innovation si trovano diversi podcast sui più svariati temi legati all’innovazione e digitalizzazione delle aziende: dai big data all’IoT, dalla blockchain allo smart working, e molto altro. Fai clic qui per andare direttamente ai podcast:

2) Innovate Faster

Google Cloud Italia mi ha invitato ad ascoltare in anteprima questo podcast di 5 puntate per presentare altrettanti casi di successo di partner certificati (Huware, Ennova, BIP, Injenia e GoReply): si parla di cloud computing, big data, scalabilità e altro ancora.

Ascolta “Ep. 1 Huware” su Spreaker.

Il podcast si trova su tutte le maggiori piattaforme podcast, anche su Spotify, Apple Podcast e Google Podcast.

3) Imprese digitali

Il Sole 24 Ore ha deciso di dedicare un podcast alla trasformazione digitale del PMI italiane: Imprese Digitali. Si legge nella presentazione del podcast: “Una digitalizzazione che coinvolge ovviamente un indotto nativo , aziende che offrono servizi innovativi, software e applicazioni a chi si vuole avvicinare a questo mondo. Ma anche realtà manifatturiere, che inseriscono le nuove tecnologie all’interno dei propri processi o prodotti“.
In questa puntata si presenta il caso di studio di MyCookingBox:

Da oggi è attivo il nuovo canale Telegram di “LinkedIn Horror”

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Telegram è ormai una realtà consolidata: secondo il rapporto di Sensor Tower per il secondo trimestre del 2022, Telegram è salito dall’ottava al sesto posto in termini di download in tutto il mondo. In Europa, Telegram ha superato WhatsApp. Tra i motivi che lo fanno preferire al rivale di casa Meta, è la versatilità (oltre alla sicurezza e alla comodità per via dei bot): Telegram, infatti, consente non solo i messaggi tra amici, ma anche di seguire i canali. Per questo ho deciso di aprire il canale pubblico di LinkedIn Horror.

Che cos’è LinkedIn Horror?

Dopo dieci anni di lavoro su LinkedIn, nei panni del formatore e del consulente, ho raccolto una quantità imbarazzante di errori, strafalcioni, foto indecenti, contenuti imbarazzanti, competenze e post spaventosi. Così ho deciso di raccogliere questi contenuti, che pubblico quotidianamente sui social. Vuoi un assaggino? In questo video trovi

LinkedIn Horror su LinkedIn e TikTok

Tutto è iniziato, ovviamente, da LinkedIn. Ho lanciato l’hashatag uffiale: #linkedinhorror. Ora, quindi, si può seguire questo hashtag per vedere i nuovi aggiornamenti:

Per “abbonarsi” gratuitamente all’hashatag su LinkedIn fai clic qui: #linkedinhorror

La rubrica LinkedIn Horror, che distribuisco anche sui canali di Meta (per esempio come Stories di Facebook e Instagram) mi sta dando soddisfazioni, a giorni alterni (a seconda di come si sveglia l’algoritmo), su TikTok:

Come ricevere i nuovi video su Telegram (e vedere quelli vecchi)?

Per seguire LinkedIn Horror su Telegram occorre agganciarsi al canale. Basta aprire Telegram e cercare grazie al motore interno “LinkedIn horror”. In alternativa, più facilmente, puoi fare clic direttamente qui: https://t.me/linkedinhorror

La recensione di “Questo titolo spacca” dal master “Professione Editoria Cartacea e Digitale”

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Questa recensione è stata realizzata da nell’ambito del corso di Web, e-commerce e metadati per l’editoria.

Questo titolo spacca. L’arte della titolazione online a uso di giornalisti, blogger, marketer e copywriter di Gianluigi Bonanomi 

Il titolo di un articolo online è spesso l’unica cosa che i lettori leggeranno; [..] è in grado di fare la fortuna o decretare la morte del pezzo.

Questo titolo spacca. L’arte della titolazione online a uso di giornalisti, blogger, marketer e copywriter, pubblicato a ottobre 2021, è l’ultima uscita della collana “I mestieri della comunicazione” di Editrice Bibliografica. L’autore, Gianluigi Bonanomi, è un imprenditore, consulente e divulgatore esperto di comunicazione online e web writing, ma ha una solida formazione giornalistica, essendo stato giornalista per più di dieci anni, come lui stesso scrive, “in un’altra vita”.

Questo titolo spacca si presenta come una vera e propria guida alla titolazione online e a tutte le insidie del mezzo. L’autore si rapporta con cinismo e ironia all’infinità di ben noti problemi con cui chi scrive per il Web deve fare i conti: dal galoppante analfabetismo funzionale al vizio degli utenti di non andare oltre il titolo, fino alla necessità di utilizzare termini che conquistino gli algoritmi e sconfiggano l’ampia concorrenza di titoli acchiappa-like accattivanti ma poco sinceri.

Il testo è strutturato in tre parti, da subito ben presentate per permettere al lettore di avere un colpo d’occhio sul percorso che lo aspetta. La prima è dedicata ai titoli informativi e alla scelta delle parole chiave e dei tag nell’ottica della SEO. Nella seconda parte vengono presentati i titoli impressivi, con tanto di inaspettato ma decisamente utile prontuario di figure retoriche e come utilizzarle nella titolazione. Infine, il terzo capitolo è dedicato a una lista di strumenti di analisi per valutare scientificamente l’efficacia di un titolo. Ciascun capitolo, poi, è corredato di box di approfondimento, interviste a esperti del settore e commenti a titoli reali, tutti elementi che contribuiscono a fare di Questo titolo spacca un testo completo, un vero Titolazione for dummies, come direbbe la celebre collana pubblicata in tutto il mondo.

Con uno stile informale e ironico, rompendo a più riprese la metaforica quarta parete e rivolgendosi direttamente al lettore, Bonanomi ci accompagna in un viaggio multimediale e sfaccettato. Passando da screenshot di litigi su Facebook a citazioni di Eco, da articoli di Buzzfeed al “Dio è morto” di nietzschiana memoria, servendosi di anglicismi e neologismi decisamente in voga (dalle fake news ai “professoroni”, passando per l’“università della strada”), il testo introduce a temi anche specialistici con simpatia e leggerezza. E, strizzando l’occhio all’antropologia e alla neuroscienza, citando Maslow, Dunbar e Panksepp, si propone non solo di spiegare quali titoli spacchino e quali no, ma anche, a tratti, di indagarne il perché, le ragioni radicate nel nostro cervello e nella nostra socialità.

Giornalisti nel “metaverso”: quali opportunità?

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Partiamo da alcuni punti fermi:

  • il “metaverso” non esiste (esistono i metaversi, e non si parlano nemmeno tra loro, anche se si sta lavorando a una soluzione);
  • l’hype è forte ma di opportunità concrete ce ne sono ancora poche;
  • si parla di “metaverso” spesso a sproposito.

Fatte queste premesse, racconto perché sto scrivendo questo pezzo. Qualche giorno fa ho letto “Giornalisti nel metaverso”, titolo in self-publishing che mi ha deluso: quasi 100 pagine di premessa su cos’è Internet e Web 2.0 e l’esame di Stato dell’autore giornalista… e poi – cala grazia! – poche righe, confuse, sulle opportunità per i giornalisti nel “nuovo mondo”. Allora ho deciso di indagare ed elencare quali siano, al momento, le reali opportunità per i giornalisti. Si pare dal presupposto, come afferma Laura Lorek (fondatrice di Silicon Hills News) , che i giornalisti non sono (solo) le vittime della digitalizzazione, ma possono governarla e trarne beneficio:

“[Journalists] are really a part of the computing and AI convergence industry right now that is leading to a much more fast-paced development cycle than anything we’ve seen in the past. It’s not just virtual reality, it is reality. And we, as journalists and media, have to be players in this new world.”

A mio avviso i giornalisti potranno sfruttare i metaversi – si spera un domani convergenti – per queste attività.

Riunioni di redazione

Esistono già diversi ambienti virtuali, da frequentare grazie al proprio avatar, per organizzare delle riunioni. Nel caso delle riunioni di redazione, potrebbero prendervi parte anche i “lettori”, se così possiamo chiamarli. Un esempio di ambiente virtuale utile per questo tipo di riunioni è Somnium space.

Inchieste immersive

Le tecnologie immersive offrono ai lettori, tramite i loro avatar, un contesto informativo più ampio di quello attuale: sono loro i protagonisti. Si muovono, agiscono in prima persona, al fine di esplorare, scoprire, capire. Ed essere maggiormente coinvolti. Un bell’esempio è “Hunger in Los Angeles” (l’esperimento ricostruisce una giornata tipo nelle mense per poveri di Los Angeles):

Interviste

Nel 2021, in piena pandemia (si era nel boom della variante Omicron), il giornalista del The Financial Times Henry Mance tentava da settimane di incontrare l’ex primo ministro britannico Nick Clegg (all’epoca in Meta). Mance e Clegg hanno fissato l’appuntamento per l’intervista in un metaverso, e hanno fatto incontrare i loro avatar.

L’esperimento è stato replicato anche in Italia, dal Corriere della Sera. Tra i VIP intervistati anche Bebe Vio, che presenta l’esperimento così su Instagram:

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Beatrice Maria Vio Grandis (@bebe_vio)

Vendere i “pezzi” come NFT

L’agenzia di stampa The Associated Press ha lanciato una raccolta di NFT (token non fungibili) sul marketplace di Binance. La raccolta, soprannominata “Unique Moments”, presenta versioni digitalizzate di foto e servizi giornalistici riguardanti alcuni momenti storici del secolo scorso. Qualche esempio: la resa del Giappone durante la seconda guerra mondiale, la scoperta di Plutone e così via. Il prezzo: 29 BUSD 29 (la stablecoin di Binance). Anche il New York Times e il New Yorker si sono buttati sugli NFT.

Blockchain e NFT sono utili anche per vendere delle membership ma anche per contrastare le fake news: ANSAcheck è “una soluzione che consente di certificare l’origine ANSA delle notizie grazie alla tecnologia Blockchain, che agisce come garante di trasparenza, sicurezza e apertura dell’informazione”. In questo caso, più che di metaverso si parla di Web 3.0.

Giornalisti virtuali

Il rischio per i giornalisti sarà un micidiale mix tra realtà virtuale e intelligenza artificiale: già si parla di giornalisti virtuali. Un esempio viene dalla Cina:

A tutto questo possiamo aggiungere, più lato editore, anche:

  • eventi (penso alle testate che organizzano i dibattiti politici durane le campagne elettorali)
  • feste per gli abbonati
  • servizi ai lettori (dal marketing a cimiteri virtuali al posto dei necrologi testuali?)
  • evoluzione dei podcast
  • contributi dei lettori (in una nuova ottica UGC, user generated content)

… e chissà cos’altro non riusciamo nemmeno a immaginare.

Per concludere possiamo dire che il mezzo, in questo caso, può davvero essere il messaggio. Ma quello che farà la differenza, come sempre, saranno i contenuti.

La conferenza di introduzione al metaverso

Ho tenuto un evento di presentazione del metaverso nel gennaio 2022:

[VIDEO] Perché nel Metaverso la borsa virtuale di Gucci vale più di quella reale?

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Qualche mese fa lessi questa notizia riguardo il Metaverso:

In pratica, in Roblox, una borsa di Gucci digitale è stata venduta per oltre 4.000 dollari, 800 dollari in più rispetto alla borsa reale. A questo indirizzo di Roblox trovi gli item Gucci in vendita.

Allora mi sono chiesto: perché un bene digitale, non tangibile, può costare più della controparte reale? Nel video racconto tre motivi. Buona visione:

Propaganda e comunicazione politica: che cosa hanno imparato i politici italiani da Goebbels?

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Nell’estate in cui spopola la canzone Propaganda di Fabri Fibra, ho letto lo stimolante “Goebbels. 11 tattiche di manipolazione oscura” di Gianluca Magi.

Un testo che, dopo aver riportato alcuni cenni biografici sul ministro della propaganda del Terzo Reich, elenca le sue tattiche di manipolazione, mistificazione e condizionamento dell’opinione pubblica. Una ricostruzione che permette di capire meglio anche alcuni fenomeni molto attuali, tipici del Web, come fake news, shit storm, meme, infodemia, deepfake e altro ancora.

Ho preso spunto da queste tattiche per mostrare che i nostri politici le conoscono e le usano volentieri.

Semplificazione

Difficile far passare concetti complessi, meglio semplificare (spesso questo significa banalizzare, schematizzare eccessivamente). Crisi energetica con bollette alle stelle? Basta puntare sul nucleare – dicono alcuni – facendo credere che possa avere un impatto nel breve.

Volgarizzazione

La propaganda deve essere popolare: bisogna dire alle masse quel che vogliono sentire (alimentando le echo-chamber). Paragone parla di obbligo vaccinale come provvedimento fascista.
L’idea del rispetto dell’ambiente e del taglio delle emissioni è certamente condivisibile, ma la campagna contro i jet privati, per alcuni, sa tanto di crociata contro i ricchi.

Nemico unico

Il capro espiatorio, come gli ebrei per Hitler, è molto utile: il soggetto che rappresenta l'”origine di tutti i mali” permette di aumentare il senso di appartenenza alla propria fazione politica. Dagli anni Novanta, il Centro-Sinistra ha preso di mira, nell’ordine, Berlusconi, Salvini e ora Meloni, a volte usando anche la tattica della shit storm per screditare l’avversario. Per anni l’unico argomento forte contro Berlusconi sono stati i festini di Arcore. Tattica che, tra parentesi, evidentemente non ha funzionato.

“Dare del fascista” è la variante italiana del reductio ad Hitlerum (o reductio ad nazium).

Unanimità

Un espediente retorico molto comune fa leva sul principio di persuasione “riprova sociale” (l’umana pulsione dell’appartenenza a un gruppo): si induce il pubblico a pensare che un’opinione, anche se minoritaria o irrilevante, sia largamente condivisa. I 5 Stelle hanno fatto credere che Stefano Rodotà fosse il presidente della Repubblica voluto dalla Rete, dai movimenti, dal popolo. Poi si è saputo che alle Quirinarie aveva ottenuto 4.677 consensi.

Orchestrazione

La propaganda si deve limitare a un numero limitato di slogan, molto semplici, ripetuti all’infinito (funziona così anche la pubblicità in TV). Anche se si parla di menzogne o della neolingua orwelliana, non importa. Del resto “L’audacia genera paura, la paura genera autorità”, diceva Goebbels.
Grillo ha ripetuto alla nausea la parola psiconano tanto che è diventato un trend di ricerca.

Continuo rinnovamento

Bisogna denigrare continuamente (e velocemente) l’avversario così, quando risponde, il pubblico è già interessato ad altro. Si crea un’infodemia, un maelstrom informativo, dice Maggi nel libro.

Contagio psichico

Riunire diversi avversari in una sola categoria. Praticamente fare di tutta l’erba un fascio: i musulmani sono tutti terroristi, gli imprenditori e i liberi professionisti sono tutti evasori, i politici sono tutti ladri e così via.

Trasposizione e contropropaganda

Scaricare sull’avversario i propri errori, difetti a responsabilità. Rispondere all’attacco con l’attacco, giocando in contropiede. Si può agire a diversi livelli, per esempio screditando l’avversario (killeraggio politico), mettendolo in ridicolo, attaccandolo sul piano personale (la cosiddetta macchina del fango).
Si può prenderla anche alla larga (l’ironia del caso Morisi è che la Bestia da lui governata era accusata di usare le stesse armi):

Esagerazione calcolata e travisamento

Un proverbio arabo recita:
La vittoria si ottiene non contando quanti ne hai uccisi, ma quanti ne hai spaventati.
Chi fa propaganda trasforma qualcosa di piccolo o relativamente importante in una minaccia grave.

Silenziamento

Passare sotto silenzio, o ridimensionare, le cattive notizie e le domande alle quali non si sa rispondere.

Verosimiglianza

I cosiddetti palloni sonda (ballon d’essai) sono pezzi di informazione che circolano ad arte, come un’intervista anonima che fa gioco o un meme.

Anche i meme sono utilissimi allo scopo:

Trasfusione

La propaganda fa spesso leva sulle emozioni, sugli istinti del pubblico, su ideologie o pregiudizi.

Tre libri per approfondire

Oltre al testo su Goebbels consiglio la lettura di questi altri tre testi. Il primo, tra l’altro citato anche da Magi, è “Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democraziadi Edward L. Bernays. Il secondo, sul framing, è “Non pensare all’elefante” di Lakoff. Il terzo, scusate l’autocitazione, l’ho scritto con Lorenzo Zacchetti e si chiama “Il candidato digitale“.

L’algoritmo di Instagram spinge gli utenti a spogliarsi?

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Gli algoritmi, spesso, sono programmati per fare cose a noi poco comprensibili. È il caso di una piattaforma come Instagram che sembra prediligere le foto di uomini e donne in costume da bagno o, comunque, poco vestiti (come evidenziato da questo articolo di Open). Le preferenze dell’algoritmo di proprietà di Meta, purtroppo, possono influenzare non solo il comportamento delle principali star della piattaforma (influencer e creatori di contenuti) ma anche il destino di aziende che si affidano a Instagram per vendere i propri prodotti.

È il caso di Marco (nome fittizio), un piccolo imprenditore che vive in una grossa città del Vecchio Continente e promuove i prodotti creati dalla sua azienda attraverso i canali social. Di che cosa si occupa la piccola impresa di Marco? La sua azienda produce delle barrette energetiche studiate appositamente per gli sportivi. Il reparto marketing di Marco utilizza le piattaforme social per attirare nuove clienti e per fidelizzare quelli più affezionati. In Europa i social network di proprietà di Mark Zuckerberg la fanno da padrone e una presenza su questi canali è fondamentale per il successo della propria azienda. Instagram, in particolare, punta tutto su foto e video. Marco e i suoi responsabili del reparto marketing hanno scoperto che “solo” alcuni dei numerosi post pubblicati hanno raggiunto gli oltre 100.000 follower della propria azienda. In particolare, è stato notato che le foto e i video che hanno funzionato meglio sono quelle che avevano come soggetto alcune modelle in bikini o in attillate tute sportive. Giovanna, autrice di una serie libri di successo, ha dichiarato che le foto più apprezzate dai suoi fan sono quelle che la ritraggono in costume di bagno o con addosso qualche sexy minigonna.

Purtroppo, l’algoritmo di Instagram sembra essere attratto da uomini e donne poco vestiti: per chi si affida alla piattaforma di Meta per lanciare le proprie campagne marketing è un problema non da poco. E, soprattutto, proporre foto e video di questo tipo per un’azienda potrebbe essere qualcosa che va contro i propri valori.

Come funziona l’algoritmo di Instagram?

Per capire come funziona l’algoritmo di Instagram e come vengano effettuate certe scelte, un organismo come l’European Data Journalism Network e un sito come AlgorithmWatch hanno condotto un interessante esperimento. Sono stati selezionati 26 volontari a cui è stato chiesto di installare un’estensione per il browser e di seguire un certo numero di influencer/creatori di contenuti. Nello specifico, sono stati selezionati 37 personaggi (di cui 14 uomini) provenienti da 12 diversi paesi che utilizzano Instagram per pubblicizzare marchi o acquisire nuovi clienti per le loro attività, principalmente nei settori food, viaggi, fitness, moda e bellezza.

L’estensione aggiunta al browser ha permesso di controllare automaticamente l’home page di Instagram a intervalli regolari, monitorando i post visualizzati in cima ai newsfeed. In questo modo i ricercatori hanno potuto avere una panoramica dettagliata di quello che l’algoritmo considera rilevante per ogni utente che ha partecipato all’esperimento. Nell’arco di tre mesi sono stati analizzati qualcosa come 1.737 post (contenenti 2.400 foto):

Il 21% del materiale pubblicato conteneva immagini di donne in bikini o in biancheria intima o di uomini a torso nudo.

In particolare, nei feed dei partecipanti all’esperimento i post con immagini di questo tipo arrivavano al 30% (alcuni contenuti sono stati mostrati più di una volta). In particolare, i post che contenevano immagini di donne con indumenti intimi o in bikini avevano il 54% di probabilità in più di apparire nel feed delle notizie degli utenti partecipanti all’esperimento. I post contenenti immagini di uomini a torso nudo, invece, avevano il 28% di probabilità in più di essere mostrati; quelli con cibo o paesaggi avevano circa il 60% in meno di probabilità di essere visualizzati nel feed delle notizie.

A Instagram piacciono i costumi da bagno

La “propensione” di Instagram verso i corpi umani poco vestiti potrebbe non essere applicabile a ogni contesto e a ogni utente presente sulla piattaforma: la personalizzazione e altri fattori possono arginare/amplificare questo fenomeno. Interpellata sulla questione, Meta ha sostenuto che la ricerca condotta fosse viziata in partenza, ribadendo che la classificazione sulle sue piattaforme funziona in base ai contenuti per i quali un utente mostra interesse, e non per la presenza di qualche sexy costume da bagno. Senza avere accesso ai dati ufficiali di Meta è difficile trarre delle conclusioni anche se c’è la forte convinzione tra i ricercatori che i risultati ottenuti siano abbastanza “rappresentativi” del funzionamento generale di Instagram.

In ogni caso, grazie ai whistleblower, sappiamo che Meta è consapevole dei danni che sta facendo sui teenager:

La metrica del coinvolgimento

Gli ingegneri di Meta hanno più volte affermato (le informazioni sono state recuperate attraverso i brevetti presentati) che l’algoritmo di Instagram analizza ogni immagine pubblicata sulla piattaforma assegnandogli una “metrica per misurare il coinvolgimento” che tiene conto dei comportamenti degli utenti. Per esempio, se a una persona piace un brand particolare e una foto mostra un prodotto di quello stesso marchio, la metrica di coinvolgimento aumenta. Altri parametri come il sesso, la provenienza e lo stato di vestizione delle persone in una foto possono influenzare il calcolo di questo parametro.

Sulla piattaforma, però, viene specificato che l’elenco dei contenuti proposto viene organizzato in base agli interessi degli utenti. Nel brevetto registrato da Facebook (ora Meta) nel 2015 veniva spiegato come l’algoritmo fosse in grado di classificare i contenuti in base a quello che potesse interessare agli utenti presenti sulla piattaforma.

Le immagini pubblicate possono essere visualizzate nei newsfeed di uno o più utenti in base al loro storico (i comportamenti tenuti finora) ma anche prestando attenzione alle preferenze stesse di Instagram, che può decidere arbitrariamente quello che può essere coinvolgente per i frequentatori della sua piattaforma. Facebook, per esempio, analizza automaticamente le immagini con un software specifico prima che il suo algoritmo decida quali mostrare nel newsfeed di un utente. L’intelligenza artificiale è stata addestrata attraverso migliaia di immagini che sono state analizzate manualmente: questa modalità tende a influenzare il modo in cui Instagram assegna le priorità nei feed di notizie.

Tutta colpa dell’IA?

Questo sistema, purtroppo, non è esente da problemi come sanno benissimo programmatori e ingegneri informatici: si possono verificare delle correlazioni spurie o fallaci. Per esempio, un algoritmo allenato a riconoscere lupi e cani attraverso una serie di immagini specifiche, non sempre riuscirà a identificare questi animali con la precisione di un essere umano. È possibile che consideri un lupo qualsiasi altro animale presente su uno sfondo con neve.

I dati che alimentano gli algoritmi nella maggior parte dei casi non sono di grande qualità (principalmente per una questione economica) e spesso vengono tralasciati dettagli e variabili che potrebbero fare la differenza nei sistemi automatizzati. Le conseguenze, alle volte, possono essere spiacevoli: lo scorso anno un artista brasiliano ha visto bloccati alcuni post su Instagram perché conteneva dei contenuti ritenuti violenti; peccato che le immagini raffigurassero il sette volte campione del mondo della F1 Lewis Hamilton e un ragazzino. Entrambi avevano la pelle scura. Un’insegnante di yoga di asiatica-americana è stata protagonista di un altro episodio particolare: una foto che la ritraeva nella posizione della gru laterale è stata bloccata perché secondo l’algoritmo di Instagram era volgare. Le linee guida di Instagram affermano che la nudità “non è consentita” ma la piattaforma sembra favorire quei post che mostrano centimetri e centimetri di pelle umana. La differenza tra quello che è lecito e quello che non lo è davvero sottile: il rischio di essere cacciati dalla piattaforma è sempre dietro l’angolo.

Giovanna, Marco e molti altri imprenditori che si affidano a Instagram per le loro campagne marketing avevano il terrore di parlare con i media. La maggior parte dei creatori di contenuti professionisti teme ritorsioni da parte di Meta sotto forma di cancellazione dell’account o divieti nascosti (per esempio i post mostrati a pochissimi follower o a nessuno!): una vera e propria condanna a morte per loro attività.

L’introduzione in Europa del GDPR sulla protezione dei dati nel 2018 e la promulgazione del Regolamento europeo Platform to Business (P2B) nel 2020 hanno obbligato i servizi di intermediazione online a rendere noti i principali parametri che determinano il ranking algoritmico. Purtroppo, nessuna autorità, a livello europeo o all’interno degli stati membri, ha il potere o gli strumenti necessari per controllare quello che fanno Meta, Google, Microsoft, Amazon e compagnia bella. Sebbene la discriminazione basata sul genere sia vietata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non esistono attualmente vie legali che permettano a un utente di avviare un procedimento contro la piattaforma di Meta.

Alcune organizzazioni/sindacati combattono per i diritti dei creatori indipendenti sui social media: sono già partite una serie di azioni collettive contro Google per chiedere una maggiore equità e trasparenza sulle politiche attuate su YouTube. Instagram, per ora, non è stato toccato: gli imprenditori e le imprenditrici sono costretti a rispettare le regole stabilite dagli ingegneri di Facebook se vogliono avere la possibilità di guadagnarsi da vivere…

La realtà virtuale per recruiting e training aziendale

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Sostenere un colloquio di lavoro non è mai semplice, quale che sia la posizione per la quale si è candidati e allora la realtà virtuale può tornare utile in modi inaspettati. Benché abituati a parlare di sé, della propria formazione e del proprio bagaglio di esperienze professionali, fiduciosi e convincenti, è normale avvertire un po’ di tensione. Dipende certamente dal calibro dell’azienda o del datore di lavoro che dovrebbe assumere (se è dato conoscerne l’identità) ed entra in gioco il fatto stesso di trovarsi al centro dell’attenzione o sotto esame da parte di perfetti sconosciuti.

Questo discorso vale a maggiore ragione per chi, trovandosi senza impiego da diverso tempo, si sente oltremodo soggetto a un blocco psicologico. Oppure per coloro che si congedano dal servizio militare per tornare a immergersi in un contesto civile, dopo anni passati a indossare la divisa. Quello dell’esercito è appunto il contesto nel quale è stato sviluppato un progetto sperimentale che impiega la realtà virtuale con la finalità di risolvere i problemi di comunicazione e sciogliere i nodi mentali che affliggono i soldati quando tornano a vestire abiti civili. E faticano non poco a trovare un lavoro. Si tratta della medesima realtà virtuale che dalla maggior parte degli utenti è vista come un mezzo di intrattenimento, un gadget tecnologico per calarsi in simulazioni ludiche e rappresentazioni virtuali di mondi fantastici.
Tristan Carson, veterano del Corpo dei Marine statunitensi, è stato coinvolto nei test riguardanti un progetto pilota chiamato AIDE (acronimo di Artificial Intelligence Designed for Employment) escogitato da Onward to Opportunity, un programma di formazione professionale gratuita creato dall’Università di Syracuse per l’Institute for Veterans and Military Families (IVMF).

Il colloquio con l’Oculus

A veteran using VR

Adottando il dispositivo Oculus Rift, distribuito in 19 basi militari negli Stati Uniti, l’iniziativa mira ad agevolare la transizione dei soldati alla vita comune e prepararli ad affrontare colloqui di lavoro.
L’applicazione sviluppata per tale scopo implementa un sistema di “analisi del gergo” ed esamina i discorsi pronunciati dall’utilizzatore al fine di misurare il livello di nervosismo ed esitazione. Rileva per esempio il tasso percentuale di gergo e terminologia militare impiegato dai candidati, restituendo una trascrizione completa delle parole proferite e un feedback finale.

Hanno la necessità di sapere se si stanno esprimendo adeguatamente col responsabile delle risorse umane dell’azienda, per non dare luogo a fraintendimenti

Così spiega Bryan Radliff che, dopo 31 anni passati nell’esercito americano, ora dirige il percorso didattico CyberVets, pensato per allenare le competenze informatiche dei veterani.

Così i coordinatori del programma e gli specialisti del processo di transizione possono sedersi di fronte agli individui e discutere le loro esperienze, o lavorare sulla loro attitudine a sostenere un colloquio.

Il programma citato è solo uno in un panorama di iniziative volte a sfruttare la realtà virtuale nel campo del reclutamento o della formazione aziendale, dai colloqui di lavoro all’addestramento per lo svolgimento di processi meccanici complessi e persino attività per il benessere.

La realtà virtuale per selezione e formazione

Il mercato delle applicazioni per la realtà virtuale è ancora in larga parte dedicato alle esperienze videoludiche ma non mancano software per uso professionale. E si moltiplicano i programmi con finalità di selezione e formazione: una tendenza crescente che nel 2019 valeva una “misera” fetta (si fa per dire) di 3,1 miliardi di dollari (2,24 miliardi di sterline) e che si stima possa lievitare a 57,55 miliardi di dollari (40,19 miliardi di sterline) entro il 2027.

Tom Symonds, amministratore delegato della piattaforma di formazione online Immerse, afferma che l’uso della realtà virtuale porta innegabili vantaggi alle compagnie, come la possibilità di condurre sessioni didattiche o colloqui anche con molteplici interlocutori sparsi tutto intorno al globo, senza doversi scomodare a viaggiare o imporre al personale spostamenti fuori sede. Cosa che in effetti è già possibile ottenere con semplice ricorso ad applicazioni per organizzare teleconferenze, riunioni a distanza, webinar o appuntamenti virtuali come, tra le più note e popolari, Microsoft Teams, Google Meet, Zoom Meeting. La differenza, sempre secondo Tom Symonds, starebbe nel fatto che la realtà virtuale funziona meglio nel mantenere vivo l’interesse e un livello di attenzione elevato da parte di chi ne fruisce. Chiarisce Symonds:

In generale, le modalità più diffuse e accettate per sviluppare il talento all’interno di un’organizzazione è una sorta di formazione sulla falsa riga della didattica in classe, condita da qualche tipo di proiezione di slide in stile PowerPoint. E penso che stia emergendo la consapevolezza che questo vecchio modello possa essere arricchito per mezzo delle nuove tecnologie.

Così Brent Kedzierski, responsabile delle strategie di formazione e innovazione presso Shell:

Noi vediamo la realtà virtuale come un ulteriore metodo d’istruzione che fornisce ai team un luogo sicuro nel quale esercitare competenze tecniche come non potrebbero altrimenti fare in un ambiente fisico controllato e protetto. Quando i partecipanti non si trovano in una classe, possono continuare a fare pratica nelle simulazioni di realtà virtuale e rinforzare dunque le competenze intellettuali e le attitudini comportamentali.

Senza scordare che le simulazioni di esercizi di addestramento basati su scenari e situazioni sono progettati per essere ripetuti accrescendo il livello di difficoltà e complessità, senza richiedere alcuna supervisione da parte di un istruttore.

Engineer using VR for training

La spinta della pandemia

È altresì vero che l’impiego della realtà virtuale per le attività di selezione e formazione non è nuovo, giacché le prime applicazioni sono antecedenti al 2020, eppure, stando a quanto riportato da Kedzierski, le restrizioni agli spostamenti messe in atto dai governi per contrastare la diffusione della pandemia di coronavirus hanno messo in evidenza più che mai i vantaggi della realtà virtuale. Il che si è tradotto per aziende come la Shell nella capacità, nonostante i divieti imposti dalle misure vigenti, di svolgere le operazioni di accoglienza e inserimento rivolte ai neoassunti, comunque, ovunque e in qualunque istante.

Siamo in grado di consentire alle nuove leve di orientarsi dentro alle nostre strutture quando non hanno il lusso di visitare di persona la sala di controllo, la mensa o i dormitori.

Malgrado i benefici sin qui illustrati, non è tutto rose e fiori: la realtà virtuale è una tecnologia ancora limitata e limitante.

Il pubblico è pronto?

VirtualSpeech platform

Sophie Thompson, cofondatrice e direttrice operativa della piattaforma di apprendimento con realtà virtuale VirtualSpeech (che ha sede nel Regno Unito ed è specializzata nell’accrescimento di competenze relative alle tecniche di selezione, vendita e public speaking), sottolinea come, a fronte di una crescita del 300% nel 2019 e nel 2020, gli utenti non si siano ancora adeguati alla novità e non abbiano acquisito un’adeguata dimestichezza col mezzo.

C’è un abisso tra osservare il mondo digitale dallo schermo di un computer o di uno smartphone e infine divenire parte attiva in situazioni reali. La gente non è abituata a indossare un casco per la realtà virtuale e trovarsi immersa, come teletrasportata, in un altro luogo o esperienza; e alcuni sperimentano un senso di vulnerabilità. Ma le cose stanno già cambiando con l’evoluzione dei dispositivi che diventano sempre più sofisticati.

Kevin Cornish, amministratore delegato di Moth + Flame, una compagnia che ha collaborato con l’aeronautica statunitense per produrre soluzioni in realtà virtuale volte a contrastare fenomeni come la tendenza al suicidio o le violenze sessuali, afferma:

Una volta adottato questo metodo di apprendimento, per le persone è difficile tornare alla vecchia formazione di fronte allo schermo di un computer. È così immersivo e coinvolgente che le compagnie certamente lo inseriranno tra le soluzioni di formazione e addestramento.

È interessante notare che le maggiori difficoltà e reazioni di disagio provengano da individui attempati, mentre i giovani sono assai più propensi e a proprio agio nell’indossare un casco per la realtà virtuale.

Quando queste generazioni assumeranno ruoli dirigenziali e faranno parte dei vertici aziendali, il processo di adozioni di tale tecnologia subirà un’accelerazione. – prevede Cornish – Ma stiamo riscontrando un sacco di entusiasmo per questi prodotti anche da parte dei baby boomers e della generazione X.

Dal canto suo, Tom Symonds di Immerse ritiene che a spingere maggiormente verso la realtà virtuale sarà la volontà da parte delle aziende di implementare soluzioni tecnologiche a sostegno della salute e del benessere mentale dei propri dipendenti.
Immerse ha di fatto avviato una partnership con la app di meditazione Solas VR col fine di costruire una libreria di esperienze di realtà virtuale per conciliare la meditazione utili per aumentare il benessere mentale e la produttività del cervello. Il catalogo contempla già una selezione di video a 360° gradi che proiettano in scenari naturali idilliaci (catturati in Irlanda) nei quali rilassarsi, svolgere esercizi di respirazione e così via.

La tecnologia ha la capacità di trasportarti in un altro luogo, lontano dallo stress lavorativo quotidiano e collocarti in un ambiente che ti consente di ritrovare la calma. – chiosa Symonds – E questo è un utilizzo brillante dei dispositivi tecnologici.

Politici italiani su LinkedIn, il caso Tajani: la mia intervista per Affaritaliani.it

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Il 12 agosto 2022 sono stato intervistato da Affaritaliani.it, in piena campagna elettorale, per parlare dell’uso che fanno di LinkedIn i politici italiani (“La campagna elettorale corre sui social: LinkedIn trascurato, ma non da Tajani“).

Mi sono concentrato sul caso di Tajani, ecco il mio contributo.

Affaritaliani.it ha chiesto un parere sul tema al comunicatore digitale Gianluigi Bonanomi, che forma aziende, professionisti ed enti sull’uso strategico di LinkedIn: “L’utilizzo di questa piattaforma da parte dei politici italiani è particolarmente controverso. Sono pochi gli esempi virtuosi. Tra questi segnalo Antonio Tajani. Il suo profilo ha tre caratteristiche vincenti:

  • presenta buone immagini (la parte visuale sui social è sempre più importante);
  • è tutto sommato completo;
  • infine, è attivo, con un buon ritmo in termini di post”.

Gianluigi Bonanomi, che è anche autore del libro Il candidato digitale: L’arte della campagna elettorale nell’epoca dell’algocrazia e del post-Covid (con il vicedirettore di Affari Lorenzo Zacchetti), dà anche delle indicazioni pratiche: “Stando sul caso pratico di Tajani, il suo profilo per risultare perfetto avrebbe bisogno di queste altre tre cose:

1) Ulteriore completamento del profilo, segnalando competenze e progetti;

2) Uso strategico degli hashtag nei contenuti cosa spesso trascurata dai politici, che invece dovrebbero ‘cavalcare’ i temi del momento (per esempio la #flattax);

3) Puntare di più sui video, tipologia di contenuto che tutte le piattaforme social ora bramano.

Sono molti, viceversa, i politici che hanno aperto il profilo e non lo stanno sfruttando al meglio. Anzi, in alcuni casi i profili si rivelano boomerang comunicativi”.

Il corso sui social per la PA

Ho parlato abbondantemente di questi temi (LinkedIn per la pubblica amministrazione compreso) nel videocorso che ho registrato per Primopiano: “Web e social per la PA“.